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Kater I Rades 1997, la strage che fu l’humus della Bossi-Fini

Kater I Rades 1997, la strage che fu l’humus della Bossi-FiniSuperstiti della Kater I Rades

Senza memoria Napolitano, all'epoca ministro dell'Interno: «Presidio militare dei porti di provenienenza»

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 4 ottobre 2013

Il presidente della repubblica Giorgio Napolitano anche su questa tragedia traccia la linea da percorrere, in maniera bipartisan e con chiaro riferimento all’Unione europea: «È indispensabile stroncare il traffico criminale di esseri umani in cooperazione con i paesi di provenienza dei flussi di emigranti e richiedenti asilo. – ha dichiarato – Sono pertanto indispensabili presidi adeguati lungo le coste da cui partono questi viaggi di disperazione e di morte». Presidi militari.

Come se non avesse più memoria della tragedia della Kater I Rades del 28 marzo 1997, che lo coinvolse direttamente in qualità di ministro degli Interni del primo governo Prodi di centrosinistra. Quando in un clima di isteria contro gli albanesi che arrivavano con le carrette a mare, con la Lega Nord – ben rappresentata da Irene Pivetti allora a capo del parlamento – che chiedeva espressamente di sparare sulle navi dei profughi e di ributtarli a mare, una nave militare italiana speronò in acque internazionali la carretta del mare Kater I Rades, provocandone l’affondamento con la morte di oltre cento persone, molte delle quali donne e bambini. Fuggivano tutti dalla guerra civile che era scoppiata in Albania contro il fallimento delle Piramidi finanziarie e contro il premier Sali Berisha che le aveva promosse.

La Sibilla era tra le navi italiane impegnate in un «blocco» deciso dal governo Prodi in accordo con quello albanese di Sali Berisha senza l’assenso del parlamento e senza che ancora fossero conosciute le regole d’ingaggio delle forze militari impegnate nell’operazione di «respingimento e dissuasione» dei profughi albanesi in fuga. La versione dei fatti fornita dalla Marina militare apparve subito lacunosa. Risultò che la Sibilla si era avvicinata al cargo albanese che era in evidenti condizioni precarie di navigazione, nonostante il mare mosso, per «consigliare» con un megafono all’imbarcazione di tornarsene in Albania. Nelle condizione del mare a forza cinque, una nave militare delle dimensioni e della stazza della Sibilla era tenuta a rispettare una distanza di sicurezza di almeno cento metri. Cosa quasi impossibile e che infatti non avvenne.

Aldilà dei fatti accaduti «a mare» resta ancora adesso tutta quanta la responsabilità, oggettiva e politica, del governo di allora per il «pattugliamento navale» – il «presidio» che continua a chiedere Napolitano – e la finalità per la quale era stato organizzato. Fu subito un rimpallo di responsabilità. Colpa di Andreatta alla Difesa? No, colpa di Napolitano agli Interni che, con il decreto d’emergenza e le espulsioni, aveva messo in moto il meccanismo del blocco navale. Una cosa sola fu certa: quelle misure vennero prese da tutto il governo. Il primo governo di centrosinistra, con i Ds (allora Pds) in posizione dominante, si era messo d’accordo con un personaggio impresentabile come Berisha, per un blocco navale e per l’invio di una forza militare che intanto lo sostenesse.

Un «muro» di navi da guerra, dinanzi alle coste albanesi per interdire la navigazione ai profughi diretti verso l’Italia in fuga dalla guerra civile albanese, deciso senza mandato parlamentare, con l’opposizione di forze della maggioranza di governo come Rifondazione comunista (tutta, ancora non c’era stata la rottura) e i Verdi. E con l’aperta ostilità dell’Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati , Fazlum Karim. Ecco l’humus da cui prese le mosse la Bossi-Fini. E pensare che il governo italiano, replicando al rappresentante dell’Onu, aveva escluso, mentendo, l’esistenza del blocco navale.

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