Cultura

Judith Butler, dare forma alla radicalità del conflitto

Judith Butler, dare forma alla radicalità del conflittoAntony Gormley

Judith Butler Intervista con la filosofa, ospite a Bologna per parlare del ruolo critico delle università nell’epoca di Trump

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 1 luglio 2017

«È tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare». A partire dalla pubblicazione di Gender Trouble (1990), uno dei testi fondativi della teoria queer, la riflessione di Judith Butler – docente presso il Dipartimento di Letteratura comparata e il Programma di Critical Theory dell’Università della California, Berkeley e la European Graduate School/EGS – ha provocato un ampio dibattito che ha coinvolto tanto il femminismo quanto, più in generale, la teoria critica, facendo di lei una delle più influenti intellettuali nel panorama internazionale contemporaneo.

Muovendosi tra la filosofia, la psicoanalisi e la letteratura, Butler è intervenuta su alcuni dei principali eventi che hanno scosso il presente globale, dall’11 settembre alle Primavere arabe. Tra le sue ultime pubblicazioni, Senses of the Subject (New York, 2015) e Notes toward a Performative Theory of Assembly (Harvard, 2015, tradotto in italiano con il titolo L’alleanza dei corpi, Nottetempo, 2017).

La filosofa è stata in Italia, a Bologna, per promuovere la conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna), fino al 7 luglio. L’abbiamo raggiunta per qualche domanda.

Come pensa che il ruolo critico delle università, la loro opposizione alle politiche di deportazione di Trump, sarà colpita dai suoi progetti di riorganizzazione dello Stato e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?

È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo federale . Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti.

Le università però possono decidere di consegnare i nomi di quelli che non hanno documenti oppure resistere alle richieste dei funzionari. Hanno il potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste all’applicazione delle politiche federali.

Anche alla luce di questo tipo di resistenza, alcuni vedono nell’elezione del presidente degli Stati Uniti un’opportunità per i movimenti sociali. Condivide questa prospettiva?

Ci sono due modi di leggerla. C’è chi crede in una concezione dialettica della storia per cui un movimento di resistenza, per crescere, ha bisogno di un leader fascista, sicché dovremmo essere contenti in questa circostanza. Spero che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere galvanizzati.

C’è però un secondo modo di vederla, che sono disposta ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati Uniti ha reso imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e una direzione davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere attraverso il partito democratico, o se ci debba essere un movimento di sinistra – il che non coincide necessariamente con una politica di partito – che sappia che cosa sta facendo e che, su questa base, possa decidere se accettare un partito, o se avanzare le proprie rivendicazioni a un partito.

Ma non è detto che si debba cominciare dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione esistente, per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il resto è considerato una minoranza radicale senza potere.

In che modo la campagna elettorale e in particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali – che è stata spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze – può offrire indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a Trump nei termini che ha appena descritto?

La corsa di Sanders alla presidenza è stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata molto più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse. Ma è stato anche frustrante, perché non è chiaro se Sanders sapesse come rivolgersi agli afroamericani, sembrava che pensasse che quella di classe fosse l’oppressione primaria e quelle di razza e genere fossero secondarie. Forse è necessario distinguere Sanders dall’«effetto Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi permettendo loro di pensare che possono avere un po’ di potere.

Negli ultimi mesi lo sciopero è stato uno strumento di opposizione praticato dai migranti e dalle donne, stabilendo una linea lungo la quale è possibile praticare l’interruzione di un rapporto sociale di potere. La sua riflessione sulle «assemblee» articola la necessità o la possibilità di questo tipo di linea di conflitto come condizione dell’«assemblea»?

Nell’era di internet possiamo entrare in rete nel web e decidere uno sciopero senza riunirci di persona. La vera domanda diventa allora come il modo tradizionale di funzionamento dell’assemblea, per cui i corpi si assemblano nello stesso spazio, sta in relazione con il networking digitale, o con una modalità politica di mettersi in rete che può anche essere la base per lo sciopero. Di solito gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono molto interessanti, sono principalmente forme di messa in rete per la resistenza.

Si tratta di una forma tra le altre possibili di associazione e alleanza tra gruppi, una forma che è legata all’assemblea anche se non sono esattamente la stessa cosa. L’anno scorso coloro a cui non è assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni palestinesi, negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto uno sciopero della fame. Hanno comunicato attraverso le reti di sostegno dei prigionieri, hanno creato un network internazionale senza bisogno di un’assemblea, hanno scioperato nello stesso momento per attirare l’attenzione dei media sul fatto che l’isolamento è una pratica disumana a cui tutti insieme si stavano opponendo.

Alleanze a reti di questo tipo sono precisamente quello che è necessario per portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche lo sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro, ed è accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi. D’altra parte, quanto più ci appoggiamo ai media per creare connessioni transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in cui il ciclo dei media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo scompare. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa temporaneità per sostenere le nostre connessioni politiche.

Questo ci riporta alla capacità dei movimenti di consolidarsi e a come affrontare il problema della continuità e dell’organizzazione?
Le assemblee possono articolare un certo tipo di critica. Per esempio lo sciopero delle donne l’8 marzo ha articolato dei principi, il punto è come quei principi sono tradotti in pratiche, organizzazione e movimento. Penso che il grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che annuncia sono raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono così spettacolari e pubblici.

Ma c’è un altro punto che mi interessa sottolineare: un’assemblea che dura molto tempo diventa un accampamento, o magari un’occupazione, che dura più tempo o si allarga e può diventare un movimento sociale e anche una lotta rivoluzionaria. Questo mi interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero per un giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché non cambiano le condizioni» .

Lo sciopero generale è il rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione del mondo, della politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale, li abbiamo visti abbattuti dai movimenti di massa. Ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno facendo esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o dell’abbandono o della perdita del lavoro.

Deve essere chiaro che questo accade sul piano transnazionale e deve essere messo in termini che la gente possa capire, perché possa riconoscere l’ingiustizia della propria sofferenza. Se posso tornare al femminicidio, il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato, in cui si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani, si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo Stato della sua complicità. È una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale, quindi penso che dovremmo studiare questi movimenti e trarne ispirazione.

* (La versione integrale di questa intervista è pubblicata su www.connessioniprecarie.org)

** Read the English version of this article at il manifesto global

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento