«Joker: Folie à Deux», il colore della disperazione e la fragilità dell’umano
Immaginari Il sequel di Todd Phillips, con Joaquin Phoenix e Lady Gaga, resiste nelle sale nonostante le accuse di "flop". Il dibattito che ha generato non ci parla solo di cinema
Immaginari Il sequel di Todd Phillips, con Joaquin Phoenix e Lady Gaga, resiste nelle sale nonostante le accuse di "flop". Il dibattito che ha generato non ci parla solo di cinema
Cosa può un corpo – recitava il titolo di un libro nel pieno del Novecento – tanto più adesso, in questa lenta, protratta agonia di senso (di sensi), deterioramento interrotto di segni, che è diventato il nostro tempo? Folle di subumani (perché privati della fertilità del segno) che pendono dalle labbra di corifei della cosmesi, di supereroi della facezia, farneticanti nella cornice traslucida di un video: non pensano, si direbbe, non si pensano più dentro il mondo, dentro l’enorme palinsesto estetico, linguistico che sarebbe il mondo, e se mai si rimirano narcisisticamente all’interno degli specchi scatologici offerti dagli schermi. «È intrattenimento» canta Harley Quinn in Joker: Folie à Deux, il film di Todd Phillips che resiste nelle sale (mentre si soppesano gli incassi biascicando che no, che è stato un fiasco) tra il risentimento dei seguaci dell’universo fumettistico o comunque di un cinema di pura narrazione e l’ammirazione di «spettatori critici» che ne hanno ricavato la rivelazione di un rude, tragico trionfo di umanesimo. Insomma il dibattito, come accade per alcuni grandi film, non è più solo prettamente cinematografico, ma culturale, esistenziale, politico.
La redazione consiglia:
«Joker: folie à deux», la doppia follia nel musical da juke boxNessuna azione, nessun cinema d’azione, nessuna narrazione incalzante – se non quella processuale e amorosa –, nessun supereroe (o ultra-cattivo) che offra allo spettatore il piacere di imprese sovrumane; se mai un super-errore (un errore della società, vessato, abusato sin dall’infanzia e ora uomo mesto, pesto) e la riflessione, la contemplazione (tradendo così i codici dell’intrattenimento) su un corpo provato, sconfitto, che è il corpo invisibile, latente del terzo millennio, soffocato sotto le macerie della civiltà. Il corpo scrignuto, deforme, nudo; l’ossame che preme spasmodicamente da sotto alla pelle come a voler uscire e gridare, maschera nuda; il carcame liso, livido di Arthur Fleck (così com’è tutto lo scenario del film: grigio, verde ospedaliero, ferrigno), mostra il pathos della carne, una plaga di nervi, la diramazione bluastra dei capillari che attivano i sensi e drammatizzano l’umano.
COSA PUÒ un corpo: certo, può rifugiarsi nell’immaginazione, nel musical che storicamente è il genere della fantasia (da questo punto di vista il film è anche una riflessione sulla struttura del guardare, del narrare, del fare cinema). Ma può anche riprendersi dal torpore, riprendere vigore in nome di un amore, prima che anche questo diventi lacerazione, abbandono: è così poetica – «una poesia dell’avvenimento del mondo» la chiamava Mario Luzi – la scena dell’amplesso tra Arthur e Harley, quando lui non sa penetrarla o forse non vuole usare il suo vigore su di lei nel timore di farle male, e chiede che sia lei a indurre la penetrazione, mentre Arthur vi si aggrappa come un disperato. Credo sia questo il senso ultimo del film: la celebrazione dell’umano, nelle sue contraddizioni, nella sua debolezza; l’intensità (estetica, linguistica) e il peso insoffribile della disperazione, della solitudine dell’individuo tanto più in un mondo di maschere violente. E mi chiedo se ci sia qualcosa di più rivoluzionario oggi (quella rivoluzione invocata già nel primo film) dell’offrirsi «nudi», fragili, ingenui – anche se ciò risultasse ridicolo – a questa bieca, brutale pantomima di ottusi ghigni.
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