Visioni

«Joker: Folie à Deux», il colore della disperazione e la fragilità dell’umano

«Joker: Folie à Deux», il colore della disperazione e la fragilità dell’umanoLady Gaga e Joaquin Phoenix in una scena di «Joker: Folie á Deux»

Immaginari Il sequel di Todd Phillips, con Joaquin Phoenix e Lady Gaga, resiste nelle sale nonostante le accuse di "flop". Il dibattito che ha generato non ci parla solo di cinema

Pubblicato 6 giorni faEdizione del 22 ottobre 2024

Cosa può un corpo – recitava il titolo di un libro nel pieno del Novecento – tanto più adesso, in questa lenta, protratta agonia di senso (di sensi), deterioramento interrotto di segni, che è diventato il nostro tempo? Folle di subumani (perché privati della fertilità del segno) che pendono dalle labbra di corifei della cosmesi, di supereroi della facezia, farneticanti nella cornice traslucida di un video: non pensano, si direbbe, non si pensano più dentro il mondo, dentro l’enorme palinsesto estetico, linguistico che sarebbe il mondo, e se mai si rimirano narcisisticamente all’interno degli specchi scatologici offerti dagli schermi. «È intrattenimento» canta Harley Quinn in Joker: Folie à Deux, il film di Todd Phillips che resiste nelle sale (mentre si soppesano gli incassi biascicando che no, che è stato un fiasco) tra il risentimento dei seguaci dell’universo fumettistico o comunque di un cinema di pura narrazione e l’ammirazione di «spettatori critici» che ne hanno ricavato la rivelazione di un rude, tragico trionfo di umanesimo. Insomma il dibattito, come accade per alcuni grandi film, non è più solo prettamente cinematografico, ma culturale, esistenziale, politico.

Un corpo derelitto, martoriato nel mezzo dello spettacolo contemporaneo: la scena in cui il capo dei secondini, dopo che Arthur gli ha dato un’amichevole pacca sulla spalla in piena euforia per il primo incontro con Harley, gli restituisce uno schiaffo poderoso dietro la nuca facendolo quasi cadere in avanti, è quanto di più crudele e violento si possa vedere in giro. Arthur barcolla, magari abbozza un sorriso imbarazzato e inebetito sulla bocca e va avanti, nella cieca violenza della società e nella faconda vacuità dello spettacolo televisivo, pseudo-televisivo che la magnifica, flusso di informazioni audio-video che corrono nell’etere alla velocità della luce. Ecco: il mondo come intrattenimento e non più come interpretazione, pensamento, ripensamento delle cose e dei corpi che vi si dibattono, amano disperatamente, muoiono, corrispondendo a tutte le prerogative che sono dell’umano.

Nessuna azione, nessun cinema d’azione, nessuna narrazione incalzante – se non quella processuale e amorosa –, nessun supereroe (o ultra-cattivo) che offra allo spettatore il piacere di imprese sovrumane; se mai un super-errore (un errore della società, vessato, abusato sin dall’infanzia e ora uomo mesto, pesto) e la riflessione, la contemplazione (tradendo così i codici dell’intrattenimento) su un corpo provato, sconfitto, che è il corpo invisibile, latente del terzo millennio, soffocato sotto le macerie della civiltà. Il corpo scrignuto, deforme, nudo; l’ossame che preme spasmodicamente da sotto alla pelle come a voler uscire e gridare, maschera nuda; il carcame liso, livido di Arthur Fleck (così com’è tutto lo scenario del film: grigio, verde ospedaliero, ferrigno), mostra il pathos della carne, una plaga di nervi, la diramazione bluastra dei capillari che attivano i sensi e drammatizzano l’umano.

COSA PUÒ un corpo: certo, può rifugiarsi nell’immaginazione, nel musical che storicamente è il genere della fantasia (da questo punto di vista il film è anche una riflessione sulla struttura del guardare, del narrare, del fare cinema). Ma può anche riprendersi dal torpore, riprendere vigore in nome di un amore, prima che anche questo diventi lacerazione, abbandono: è così poetica – «una poesia dell’avvenimento del mondo» la chiamava Mario Luzi – la scena dell’amplesso tra Arthur e Harley, quando lui non sa penetrarla o forse non vuole usare il suo vigore su di lei nel timore di farle male, e chiede che sia lei a indurre la penetrazione, mentre Arthur vi si aggrappa come un disperato. Credo sia questo il senso ultimo del film: la celebrazione dell’umano, nelle sue contraddizioni, nella sua debolezza; l’intensità (estetica, linguistica) e il peso insoffribile della disperazione, della solitudine dell’individuo tanto più in un mondo di maschere violente. E mi chiedo se ci sia qualcosa di più rivoluzionario oggi (quella rivoluzione invocata già nel primo film) dell’offrirsi «nudi», fragili, ingenui – anche se ciò risultasse ridicolo – a questa bieca, brutale pantomima di ottusi ghigni.

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