Il primo ricordo va al suo corpo nudo disteso e addormentato in Sleep (1963), l’anti-film di Andy Warhol, che dilatava il sonno dell’amico John Giorno, riprendendolo ossessivamente per cinque ore e mezza ( («ogni volta che mi svegliavo lo trovavo che era lì, a guardarmi»). Era una forma di cinema dirompente, Warhol esordiva così, con un racconto casuale della quotidianità, la stessa che poi Giorno ripropose con la sua opera più celebre Dial-A-Poem (nata nel 1967 e poi sbarcata nella rassegna Art by Telephone, a Chicago).

L’ULTIMA VOLTA che in Italia abbiamo potuto giocare con quel dispositivo per il sogno e l’evasione è stato alla Galleria nazionale di arte moderna, lo scorso febbraio, nella mostra You got to burn to shine, curata da Teresa Macrì. Il titolo era un omaggio a quel diario del 1994 – mix di intimità e pensieri filosofici – in cui Giorno narrava di sé, dei suoi rapporti con Warhol e degli incontri sessuali con Haring.
C’era anche lui all’inaugurazione romana, nelle vesti di un poeta, artista e sciamano che recitava i suoi versi accompagnandoli con un ipnotico ritmo da litania che dilatava il tempo (un insegnamento del buddismo tibetano). Poco più in là, nelle stanze della Galleria, la cornetta di un telefono nero se ne stava quieta su una mensola, aspettando la mano che l’avrebbe sollevata: da quel momento cominciava a dispensare poesie, pescando in duecento componimenti di dreamers e altri performer.
Dial-A-Poem scaturì da uno scambio con il sodale Burroughs; all’inizio, le linee previste erano dieci, poi crebbero: bisognava strappare più persone possibile dalla banalità del loro everyday. Giorno si accorse che il picco di chiamate coincideva sempre con l’orario di lavoro in ufficio, segno della necessità perenne di uscire da sé e di non poter ingoiare solo noia e regole indigeste per tutta la vita.

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SU QUELLE LINEE telefoniche impazzite, ci si poteva imbattere anche in brevi discorsi politici delle Pantere nere. Per il resto, si ascoltavano le parole in libertà di William S. Burroughs, Allen Ginsberg, Diana De Prima, Clark Coolidge, Taylor Mead, Bobby Seale, Anne Waldman, Jim Carroll, fra gli altri.
Nato nel 1936 da una famiglia di origini italiane (proveniva da Aliano, provincia di Matera), John Giorno è stato un protagonista della Performance Poetry, non disdegnando di affidare i suoi versi se non al vento, anche alle scatole di cerini e alle tavolette di cioccolata, oltre che ai libri e alle biblioteche. D’altronde, come ha raccontato lui stesso in più di una occasione, aveva l’abitudine di scrivere fin da bambino e nel corso del tempo non ha mai smesso. «Lo faccio ogni giorno e sto lavorando da vent’anni a un’opera di 675 pagine», affermava.
Attivo nella Factory, elaborò le idee della Pop art – di cui amava soprattutto la spregiudicatezza, la mancanza di riferimenti a mondi tradizionali, così come il miscelamento di linguaggi e la possibilità di realizzare opere collettive – e poi fece germinare i sentieri anarchici della Beat Generation.

LA SUA CURIOSITÀ intellettuale non ha mostrato ripiegamenti né segni di deterioramento. Il suo interesse per le conquiste della tecnologia è rimasto sempre vivo. Già alla metà degli anni Sessanta lo portò alla fondazione del Giorno Poetry Systems, associazione no profit ed etichetta che ha pubblicato oltre cinquanta album di poesie e musica. La rete che forniva idee, materiali tecnici e supporti ha visto lavorare, e in qualche caso esordire, le migliori menti creative di quegli anni – da Laurie Anderson a Gregory Corso, fino a Patti Smith, Philip Glass, Frank Zappa e, naturalmente, Burroughs (Giorno raccolse tutte le registrazioni delle sue letture). C’erano anche Robert Rauschenberg, la coreografa Trisha Brown e il fotografo Mapplethorpe, a testimoniare una «piattaforma» underground dell’arte, «catalizzata» nella personalità vulcanica di John Giorno (che intanto si esercitava nel concettuale con le sue pitture/scritture).

NEI DECENNI SUCCESSIVI, i soldi raccolti dall’associazione furono devoluti per progetti sull’Aids, fornendo assistenza ai malati, medicinali e alloggi. Oltre a spendersi per le carriere degli amici, fu «generoso» anche come attivista, appoggiando e lanciando campagne contro la guerra in Vietnam, per i diritti dei gay e per quelli degli afroamericani.
Fra gli ultimi tributi, la mostra che l’artista svizzero Ugo Rondinone, suo marito, ha concepito al Palais de Tokyo (2015-16). Una dichiarazione d’amore suddivisa in otto capitoli, ciascuno imperniato su un aspetto dell’opera di Giorno.