Jirí Weil a Praga fra uomini e statue
Novecento ceco Grandi problemi filosofici stretti in piccoli episodi marginali, a loro volta presi in una ragnatela di storie tragicomiche, a ridicolizzare l’ultimo nazismo: «Sul tetto c’è Mendelssohn», nelle Letture Einaudi, tradotto da Giuseppe Dierna
Novecento ceco Grandi problemi filosofici stretti in piccoli episodi marginali, a loro volta presi in una ragnatela di storie tragicomiche, a ridicolizzare l’ultimo nazismo: «Sul tetto c’è Mendelssohn», nelle Letture Einaudi, tradotto da Giuseppe Dierna
A Praga, in piena Seconda guerra mondiale, due svogliati inservienti cechi armati di fune sono incaricati da un pavido aspirante membro delle SS di eliminare dalla balaustra del Rudolfinum la statua del compositore ebreo Felix Mendelssohn. Ma come riconoscerlo? Evidentemente privo di cultura musicale, il malcapitato capo dell’indolente compagnia non trova di meglio se non cercare «il naso più grosso», come gli hanno insegnato le lezioni di «scienza della razza». Peccato che la statua, con il cappio già al collo per essere abbattuta, si rivelerà essere quella di Richard Wagner…
È questa la soluzione originale che lo scrittore ceco Jiří Weil escogita nel capitolo iniziale del suo romanzo Sul tetto c’è Mendelssohn – finalmente tradotto in italiano (da Giuseppe Dierna, Einaudi, pp. 312, € 20,00) – per rappresentare narrativamente la tragedia della Shoah e il razzismo più bieco, senza scadere nel moralismo.
Nella drammatica vita di Weil sono condensate le contraddizioni di molti intellettuali comunisti cechi del XX secolo. Importante traduttore della letteratura russa già negli anni Venti, e anche di testi politici – fra i quali le opere di Lenin – trascorse a Mosca gli anni dal 1933 al 1935, prima di essere coinvolto nelle purghe staliniane, espulso dal partito e mandato in soggiorno forzato in Asia centrale. Tornato in Cecoslovacchia, parlò della sua drammatica esperienza fra le pagine di un polemico romanzo La frontiera di Mosca, pubblicato nel 1937: la reazione degli intellettuali comunisti fu così violenta che lo dissuase dal dare alle stampe il seguito, Il cucchiaio di legno, uscito per la prima volta solo nel 1970 in un’edizione italiana (Laterza).
Negli anni della guerra Weil sopravvisse in modo rocambolesco, prima grazie a un matrimonio combinato e a un ricovero in ospedale, poi sfuggendo alla deportazione con un finto suicidio, e nascondendosi dunque in casa di amici.
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«Giallo e verde», un racconto di Jirí WeilDi recente, è stata riscoperta anche la sua attività giornalistica, ma è ai testi narrativi che Weil deve la sua fama, sebbene a penalizzarlo abbia provveduto, questa volta, il cliché di autore di «romanzi-reportage».
La magistrale scena farsesca della statua sul tetto, che inaugura Sul tetto c’è Mendelssohn – vero racconto nel racconto dal quale Jean-Jacques Prunès ha tratto un cortometraggio – esemplifica la straordinaria capacità dell’autore di incastonare i grandi problemi filosofici in piccoli episodi marginali, ridicolizzando così il mondo alla rovescia delle ultime fasi del nazismo. Il romanzo è ambientato nei mesi che precedono e seguono l’attentato mortale (27 maggio del 1942) contro l’onnipotente «protettore» Reinhard Heydrich, inventore ed esecutore della «soluzione finale», aberrante progetto basato su «cifre, rendiconti e diagrammi», ma anche raffinato appassionato di musica classica.
Introdotto dal mito di Deucalione e Pirra che, dopo la distruzione dell’umanità la ricreano lanciando pietre alle proprie spalle, Sul tetto c’è Mendelssohn sviluppa una ragnatela di storie tragicomiche, che vanno dalla rimozione dei resti mortali del milite ignoto alla malattia che trasforma uno dei protagonisti in una statua vivente. Ventidue capitoli si susseguono a consegnare al lettore una rocambolesca alternanza di punti di vista e di linee narrative parallele, tenute insieme dalle molteplici declinazioni del rapporto tra uomo e statua in cui si imbattono non solo i nazisti, ma anche i tanti piccoli eroi marginali che popolano le strade di Praga e Terezín. Le statue si stagliano come simboli multiformi che osservano, ricordano, salvano, si vendicano, giudicano la piccolezza umana, mentre gli uomini si trasformano in statue insensibili (il titolo originario del romanzo era, del resto, «Uomini e statue»).
Coraggioso tentativo di trovare una forma in grado di descrivere un’epoca difficilmente spiegabile, il romanzo di Weil esibisce un ipnotico caleidoscopio di momenti tragicomici, osservati attraverso lo sguardo obliquo di chi agisce per interesse personale o, al massimo, per salvare la pelle, non certo perché crede nei postulati dell’ideologia nazista. È, infatti, un emblematico esempio dell’umorismo ceco, «così particolare, mellifluo e sovversivo» – ha scritto Laurent Binet nel suo fortunato HHhH, che indaga lo stesso periodo storico.
Del resto, Jiří Weil era stato vicino all’avanguardia ceca e influenzato dalle ricerche sovietiche di una nuova teoria della prosa, ciò che lo aiutò a sviluppare in uno suo stile volutamente documentaristico una tipologia di romanzo centrata sui fatti, e aliena a ogni forma di psicologismo.
Il suo titolo più celebre, Una vita con la stella, del 1949, venne pubblicato in italiano nel 1992 da Garzanti con una prefazione di Philip Roth, che ne sottolineava l’ «estrema asciuttezza» dello stile, vicino a quello di Isaac Babel. In un allucinato monologo, il personaggio di Josef Roubíček, imperturbabile impiegato ebreo, portava alle estreme conseguenze l’insana capacità dell’uomo di razionalizzare perfino la «tragica comodità» di una vita ridotta a mera esistenza vegetativa. Nel contesto dell’epoca, dominata dal realismo socialista, alla pubblicazione di un romanzo così brutalmente antieroico seguì la campagna di una stampa che accusava Weil di passività e di mancanza d’eroismo.
Fu dunque solo nel 1960, al termine di una lunga contrattazione con redattori e censori che costrinsero l’autore a alterarne la struttura originaria del romanzo e a rafforzare il ruolo della resistenza e dell’Armata rossa, che uscì, postumo, Sul tetto c’è Mendelssohn. Ed è un peccato che l’edizione italiana, a differenza di quella francese, non contenga in appendice il picaresco capitolo eliminato (e pubblicato solo nel 1990), in cui un intero maiale viene trasportato di contrabbando attraverso tutta Praga all’interno della statua di un angelo.
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