«Giallo e verde», un racconto di Jirí Weil
František Kupka, «Peninsule», 1930 ca.
Alias Domenica

«Giallo e verde», un racconto di Jirí Weil

Un inedito dalla Boemia Breve prosa del 1943 – anno terribile per tutta l'Europa –, «Giallo e verde» è dedicato alla memoria di Milena Jesenská
Pubblicato 12 mesi faEdizione del 26 novembre 2023

Jiří Weil scrive la breve prosa «Giallo e verde» nel 1943, mentre passa da un appartamento prestato all’altro: il matrimonio con l’amica «ariana» Olga li ha privati del lavoro e di un tetto.

Ma almeno lo salva (per un po’) dai convogli per il Lager di Terezín.

Quando poi neanche i matrimoni misti bastano, non gli resta che fingere il suicidio gettandosi nella Vltava: lascia sul ponte la cartella con una lettera d’addio alla moglie.  Weil aveva conosciuto Milena Jesenská a metà anni ’20, appena tornata a Praga da Vienna.

Scriverà: «era bella, non però una bellezza da settimanale illustrato, la sua era la bellezza di una vita impetuosa e variegata», e per anni sogna un romanzo su di lei. Nel 1939 Milena non è però più l’incasinatissima ventitreenne la cui vita per poco s’intreccia con Franz Kafka. Scrive su Přítomnost coraggiosi articoli sulla situazione politica dopo l’occupazione tedesca. Quando la rivista viene chiusa, collabora con la stampa illegale, ma soprattutto ha messo su una rete per far fuggire ebrei e comunisti destinati ai Lager.

Milena viene arrestata, processata, riconosciuta innocente ma ugualmente trattenuta dalla Gestapo in «custodia cautelare» e mandata nel  ’40 nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove morirà nel maggio del ’44. E il corpo bruciato. (G.D.)

 

Jiří Weil

Giallo e verde

In ricordo di Milena Jesenská

 

Lei trascinava la propria ombra come un fardello lungo la strada. E l’invidia, un’invidia amara, si era aggrappata a quell’ombra. C’è chi cammina nella luce delle stelle dopo essersi liberato di quel fardello e aver sollevato la testa verso i cieli, la testa che si piegava sotto il fardello.

Guardateli prima che di nuovo spariscano tra i flutti di quelle ombre eroiche: avanzano con le teste rasate e i numeri tatuati sul polso sinistro, avanzano stringendo il proprio destino come fosse un tesoro, avanzano accompagnati dal battito dei cuori e da un canto di speranza.

Brandelli volavano tutt’attorno a loro, stracci, ossa e pelle erano sparsi sul loro cammino, pattume di carta e frammenti di gesso si incollavano ai loro piedi. Ma le loro teste rasate sfioravano le stelle e le loro bocche sorridevano delle schegge colorate dietro ai forni.

Guardateli prima che spariscano, augurate loro ogni bene per quel viaggio. Perché, attraverso la tortura e il filo spinato, quel loro viaggio li sta conducendo al forno ardente, le bestie stanno dilaniando  i loro corpi e non ci sarà riposo per loro nel breve tempo che hanno a disposizione.

Ma col sole di mezzogiorno escono i rettili dalle loro tane. Il loro sangue è freddo, i loro corpi sono viscidi. Si trascinano appresso la propria ombra come un fardello, e l’invidia, un’invidia amara, si aggrappa alla loro ombra.

Nella polvere dimorerai e il tuo destino condividerai con gli insetti, striscerai, ti contorcerai e ti rannicchierai, e nell’oscurità predisporrai il tuo dente velenoso. E l’ombra dell’invidia ti accompagnerà senza sosta.

Coloro che camminano sul sentiero del loro destino, coloro le cui teste rasate sfiorano le stelle, coloro che ascoltano il pianto dei lattanti, il battere dei martelli e l’affilare della falce, non ci fanno caso ai rettili. E poiché la lunghezza del loro cammino è già stabilita e il loro tempo è breve, loro riescono a chinarsi a terra solo per sentire la spiga avanzare verso la luce e lacerare il terreno concimato. Il sibilo dei rettili non confonde i loro passi. E più forte ancora e più velenoso è l’odio dei rettili. Soltanto riuscire ad affondare il dente nel corpo vivo, affinché il veleno fluisca lento nelle vene, affinché l’uomo cada dibattendosi in uno spasmo mortale, affinché giaccia nella polvere della strada, così come anche noi giaciamo qui… per contorcersi poi e divincolarsi accanto a noi, fino a che non sarà giunta la sua ora, la sua ultima ora.

Guardateli prima che spariscano. I loro cuori sono colmi d’amore, granelli di senape sono i loro corpi, sono i pilastri di un ponte, erba che benché calpestata nuovamente si risolleva… così loro camminano a passo deciso lungo la strada, con le teste rasate e i numeri sul polso sinistro, e i loro piedi nemmeno sfiorano la polvere delle strade, neanche lambiscono il pattume, i brandelli, gli stracci e i frammenti di gesso.

Era necessario andare alla riunione, magari l’appartamento era sorvegliato, era necessario sgattaiolare con cautela lungo vie traverse, forse quel viaggio significava la morte. Era necessario assomigliare ai rettili e indossare la loro pelle, ma come possono riuscirci coloro che non sanno strisciare nella polvere?

A mezzogiorno lei camminava lungo la strada, mentre i rettili strisciavano fuori dalle loro tane e scaldavano al sole il loro freddo sangue, trascinandosi dietro il fardello dell’invidia. E aveva incontrato la vipera.

Un essere così minuto, così umiliato, così viscido, così ripugnante: perché mai accorgersi di lui quando gli occhi vagavano in lontananza e la fronte sfiorava le stelle?

Bastava forse solo superarlo, passargli sopra o magari gettarlo nel fosso con un movimento meccanico del piede, perché la durata del tempo è già stabilita con precisione e il cammino è ancora lungo, non ci si può attardare.

Guardatela prima che il suo viaggio venga accorciato dal veleno della delatrice. È minuta, è semplice, ha in testa un fazzoletto di cotone e indossa sandali le cui cinghie arrivano al collo del piede. Adesso discorre coi fiori di campo, prima di essere circondata dai mostri dell’apocalisse, ma rimarrà dritta in mezzo a loro e sorriderà con dolcezza: perché mai dovrebbe temere belve e rettili? Animali simili non esistono nel mondo che lei conosce, lì ci sono solo prati e la rupe montana sopra cui si erge il castello con merlature e ponti levatoi. E per dodici mesi lei si scalda lì accanto al fuoco, le lingue fiammeggianti si alzano fino alle stelle, e non va mai via senza un regalo la ragazza dal cuore semplice venuta a scaldarsi accanto al fuoco che non conosce inganno. Cosa importa se magari dal fagotto raccoglierà pezzetti di carbone trasformati in pietre preziose, perché i pezzetti di carbone sono ancora più belli quando splendono in mezzo alla cenere del fuoco e spaventano le tenebre.

E c’è ancora molto da raccontare su di lei. Di come camminava sulle strette sporgenze delle rocce che si affacciano sull’abisso, senza che però mai l’avessero colta le vertigini: lei non guardava mai giù… e di come sapeva ridere quando il vento martellava le sue tempie e la neve le turbinava tutt’intorno, e di come con le sue piccole, deboli mani era capace di trascinare pietre pesanti.

Fu poi morsa da una vipera, ma non cadde nella polvere, non si contorse e non strisciò, si limitò solo a osservare con sguardo più fermo le stelle e non chinò la testa verso terra, lì dove la delatrice strisciava. I mostri dalla testa di animale l’avevano circondata spruzzandole in viso il loro veleno, ma lei era rimasta lì, più ferma ancora col suo fazzoletto di cotone e coi sandali ai piedi. Le avevano insanguinato le gambe coi loro denti affilati, le avevano bruciato le mani col loro alito venefico, le avevano lacerato il viso e impresso col fuoco un numero sul polso sinistro e strappato i capelli. Lei sorrideva con le gengive ormai vuote e i suoi occhi puntavano alle stelle, sulle spalle non c’era alcun fardello e lei camminava a passo leggero mentre la trascinavano verso il forno ardente.

Guardatela ancora un’ultima volta. La sua cenere sarà portata lontano dal vento, si leverà alta verso i cieli, ma scenderà poi verso il terreno, e solo allora cadrà a terra, ma non si contorcerà, non farà che adagiarcisi sopra morbidamente quando ad essa farà ritorno.

1943

Traduzione dal ceco di Giuseppe Dierna

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