Lo scorso dicembre la rivista inglese «Sight and Sound» ha annunciato il risultato del sondaggio che ogni dieci anni lancia tra critiche, critici, e ora programmer internazionali chiedendo una classifica dei «migliori film di tutti i tempi». L’impresa è in un certo senso impossibile – come decretare infatti nell’assoluto una «classifica» di opere d’arte, fuori cioè dalla soggettività di ciascuno? – ma nei suoi esiti è interessante per cogliere le tendenze delle diverse generazioni di sguardi. Al primo posto – superando classici quali Vertigo di Hitchcock o Citizen Kane di Welles – si è imposto Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles, il magnifico film che presentato alla Quinzaine di Cannes nel 1975 affermò il talento della sua regista, Chantal Akerman, allora venticinquenne, rifondando un certo paradigma della visione.

SCRIVE la critica femminista Laura Mulvey, autrice di Cinema e piacere visivo: «Jeanne Dielman ci appare come qualcosa di nuovo e inaspettato. È stato il coraggio del film a colpire immediatamente. L’adesione incrollabile e luminosa di Akerman a una prospettiva femminile (non attraverso il personaggio, Jeanne Dielman, ma all’interno del film e della sua visione da regista) combinata con il suo cinema senza compromessi e completamente coerente per produrre un film che era sia femminista che cinematicamente radicale. Si potrebbe dire che sembrava che ci fosse un prima e un dopo Jeanne Dielman, proprio come una volta c’era stato un prima e un dopo Citizen Kane». La possibilità di scoprire (o riscoprire) su grande schermo il film di Akerman viene dalla Cineteca di Bologna che lo propone oggi (ore 20.00) nel restauro curato dalla Cinémathèque Royale de Belgique nel 2015 (e si spera ci sarà una circuitazione anche in altre sale ).
Jeanne Dielman è il ritratto concentrato in alcune giornate di una donna cinquantenne, e della sua esistenza di casalinga della classe media ripresa in «tempo reale» in una casa con la carta alle pareti, gli oggetti in ordine, i segni dell’epoca nei prodotti che utilizza – il detersivo per le stoviglie, la lacca sul comò con la specchiera. La giornata di Jeanne è fatta di piccoli riti, spazzolarsi i capelli un po’ cotonati con movimenti precisi, vestirsi, riassettare, cucinare per il figlio adolescente, fare la spesa e delle commissioni, prostituirsi. Anche i clienti abituali sono un pezzo di questo quotidiano controllato nei minimi dettagli, nel quale lei si muove sempre perfetta: la camicetta, la gonna, il golfino, le scarpe col tacco. Loro, gli uomini, arrivano a un’ora stabilita mentre il figlio è a scuola, Jeanne – magnificamente interpretata da Delphine Seyrig – sa esattamente quanto durerà tanto da cuocerci le patate; una volta finito rende loro il soprabito riposto con cura, e li congeda prendendo i soldi. Poi si lava, cambia l’aria, finisce di preparare il pasto per il figlio, quando lui arriva mangiano in silenzio, lei lo aiuta a fare i compiti.

Chantal Akerman
Ho dato spazio ai gesti quotidiani di una donna, non vengono mai mostrati, nella gerarchia delle immagini contano meno di un incidente d’auto COSA c’è di straordinario in questo? Nulla e tutto. Intanto il fatto che la vita «da casalinga» di una moltitudine di donne arriva in quel 1975 sullo schermo dove mai era stata mostrata perché noiosa o indifferente, meglio immaginarle giovanissime eroine romantiche o tormentate tra amori e avventure. E, a pensarci bene anche la prostituzione non l’avevamo mai vista narrata in questo modo, nel quotidiano appunto, senza clamori o eccessi o il bisogno di creare una realtà «particolare» – che continuano anche oggi, farebbero perciò benissimo tutti i registi che si confrontano con questo a rivedere il film di Akerman. Questa dimensione «ordinaria» che la regista rivendica – «Avevo in mente di rendere visibile una realtà mai vista» diceva all’epoca – produce la radicalità del film, politica e estetica, la cui potenza è quella di non fermarsi al proprio «soggetto» ma di cercare una forma per renderlo materia viva, di inquietudine, di conflitto dentro le crepe di un’apparente inerzia. C’è negli occhi di Jeanne, che spegne sempre le luci quando esce da una stanza – unico «stacco» tra le inquadrature delle riprese frontali – un riflesso bluastro e misterioso che arriva dall’esterno, un elemento di disturbo, quasi irreale, che solo lei sembra percepire e che insinua una possibile minaccia in quell’ordine.

È FORSE il segno di un controllo esterno, di quel sistema oppressivo che la donna porta in sé e che infine esploderà provocando il caos finale? Il corpo, i suoi bisogni, la carnalità sensuale del piacere e dell’orgasmo che per lei sono impossibili – e se fossero amanti quegli uomini? – vietati dalla sua condizione di donna destinata anche qui a detour silenziosi. Akerman li rimette al centro e sono così irruenti e esplosivi da sconvolgere l’organizzazione di quel lessico domestico che ne riflette altri, la negazione del piacere, della libertà, di un desiderio irriverente. Lei ce li ha mostrati con la ribellione mai retorica e sempre desiderante delle sue immagini. Geniale.