Jarry, iconoclastia di uno scervellato
Drammaturgia Novecento Fu soprattutto «Ubu Re», ora ritradotto e illustrato da Andrea Rauch (Gallucci), a segnare la fortuna del drammaturgo francese, che si era ispirato a una farsa allestita da due studenti liceali di Rennes
Drammaturgia Novecento Fu soprattutto «Ubu Re», ora ritradotto e illustrato da Andrea Rauch (Gallucci), a segnare la fortuna del drammaturgo francese, che si era ispirato a una farsa allestita da due studenti liceali di Rennes
«Merdre». Inizia così Ubu Roi ou les polonais, dramma in cinque atti, dedicato a Marcel Schwob, che Alfred Jarry fece rappresentare a più riprese dalle marionette. Il canovaccio era ripreso dalla farsa allestita dagli studenti di un liceo di Rennes, ispirata a un loro professore, tale Félix-Frédéric Hébert il cui nome, a forza di contraffazioni goliardiche, venne storpiato in Père Ubu. I fratelli Henri e Charles Morin misero per iscritto le boutades che circolavano su questo insegnante di fisica, divenuto celebre per la totale mancanza di doti pedagogiche e il suo aspetto ridicolo. Nacque così Les polonais, commedia alla quale Jarry, studente di quel liceo, attinse a piene mani per scrivere il suo capolavoro. Vi fu chi, come Charles Chassé, per screditare la figura di Jarry, pubblicò Les Sources d’Ubu Roi (1921), in cui si sosteneva che il dramma era una scopiazzatura del testo dei fratelli Morin. Ma gli studiosi hanno dimostrato che Jarry si era soltanto ispirato alla macchietta incarnata da Père Ubu, come osserva Alastair Brotchie nella biografia Alfred Jarry, una vita patafisica: «Come avrebbero potuto, i Morin, rivendicare legittimamente la paternità dell’opera dal momento che essa era il risultato dell’inventiva di generazioni di studenti? Non erano stati neanche i primi a scrivere una pièce su Père Hébert: per loro stessa ammissione era stato un certo Lémaux. Jarry non aveva fatto altro che proseguire questa tradizione, rielaborando il lavoro degli studenti precedenti con la sua immaginazione».
La «prima» venne programmata il 10 dicembre 1896 da Lugné-Poe al Théâtre de l’Œuvre di Parigi, dopo che il Mercure de France aveva pubblicato il libro: in copertina figurava una xilografia dello stesso Jarry riproducente un Ubu stilizzato con una prominente gidouille, ovverossia un ventre spiraliforme, e la testa allungata a mo’ di pera. Tra gli spettatori c’erano Gide e Yeats. Il fondale della pièce, consistente in una congerie di elementi eterogenei (letto, finestra, albero, scheletro, elefante, vaso da notte), era stato dipinto da un’équipe composta da vari artisti, fra cui Bonnard, Toulouse-Lautrec e Vuillard. La musica era di Claude Terrasse. Il protagonista, impersonato dall’attore Firmin Gémier, impugnava al posto dello scettro lo scovolino di una latrina. Jarry aveva assoldato una contro-claque che doveva applaudire il dramma se veniva fischiato o suscitare un pandemonio in caso di successo. Non ce ne fu bisogno, perché già dopo la presentazione dell’autore, agghindato in maniera eccentrica («L’azione si svolge in Polonia, cioè in nessun luogo») e la prima battuta (la citata «Merdre»), il pubblico cominciò a rumoreggiare. La rappresentazione fu interrotta più volte. Il responsabile di tale bagarre, non contento, raccolse in un album le stroncature e cestinò le recensioni positive.
Sgorbio irritante
Jarry venne identificato con Ubu, la cui figura ebbe così vasta eco che lo scrittore decise di intraprendere un ciclo di opere dedicate a quello sgorbio irritante e grottesco, assurto a simbolo del teatro modernista, nonostante Régnier l’avesse definito «il Piranesi dei vespasiani». La saga di Ubu, anticipata da César Anthécrist (1895), conoscerà le seguenti varianti: Ubu cornuto, Ubu incatenato e Ubu sulla collina. Ma vi furono anche due numeri dell’Almanach du Père Ubu, finanziati dal mercante d’arte Ambroise Vollard e illustrati da Pierre Bonnard; nel secondo il calendario era contrassegnato dai seguenti nomi di santi: sant’Alopecia, santa Carpa, santo Specioso, santa Tetta ecc. Jarry adotterà gli stessi atteggiamenti del suo personaggio, lo stesso eloquio cifrato e sboccato, arcaico e gergale, caratterizzato da un solenne pluralis maiestatis, teso a deformare i vocaboli attraverso una sillabazione fortemente accentuata. Gide osserverà: «Se uno schiaccianoci riuscisse a parlare, non parlerebbe che così».
Attualizzare il linguaggio
Adesso l’Editore Gallucci propone una nuova versione di Ubu Re, tradotta e illustrata da Andrea Rauch (pp. 112, € 10,00), il cui intento è quello di attualizzare il linguaggio iconoclasta di Ubu, senza alcun presupposto filologico. Le tavole di Rauch si sposano a perfezione con il testo, in virtù della loro aderenza a un soggetto così triviale e buffonesco che, per adoperare le parole dello stesso Rauch nella postfazione, rappresenta «un ossimoro evidente capace di raccogliere in sé ogni imprevedibile umore o bassezza». L’originale è disseminato di una serie di neologismi e calembours di difficile resa. Rauch ricorre, per assonanza, a «giduglia» per designare la gidouille («deformazione di uno dei tanti vocaboli allusivamente scurrili di Rabelais»), a «rastrone» per rastron (animale inesistente), a «palettini» per palotins, ma reinventa «stincodiddio» per jambedieu. Le versioni italiane sono state molteplici: da quella di Aldo Camerino per le Edizioni del Cavallino (1945) a Claudio Rugafiori per Adelphi (’69).
La tendenza smodata a bere ha portato molti studiosi, tra cui Antonio Castronuovo, a congetturare che l’esistenza di Jarry possa essere considerata alla stregua di un suicidio programmato: «Mangiava di solito cetrioli e carne fredda, che diluiva in una quantità strabiliante di alcolici, almeno due litri di vino al giorno, accompagnati da un numero imprecisato di Pernod e aperitivi, grappe e digestivi. La buonanotte se l’augurava con un intruglio speciale: un Pernod allungato con aceto e inchiostro». Jarry era d’altronde il modello di un altro scrittore scomparso prematuramente, quel Jacques Vaché che con le sue Lettres de guerre è considerato il maestro di Breton e uno degli antesignani del surrealismo.
L’esistenza di Jarry è caratterizzata dalla frequentazione degli artisti più significativi del tempo. Beniamino di Rachilde, moglie del direttore del «Mercure de France» e amico di Remy de Gourmont, con il quale fondò la rivista «L’Ymagier», l’autore praticava Mallarmé, il Doganiere Rousseau, Gauguin, Apollinaire, Picasso, l’Oscar Wilde del triste esilio parigino che, a proposito di Ubu Roi, scrisse: «Il succo della pièce è che nel corso dei cinque atti tutti dicono merda a tutti, senza alcun motivo apparente». Era «malato, squilibrato da privazioni, alcolismo e masturbazioni», annota Paul Léautaud nel Diario. In linea con la Patafisica – «scienza delle soluzioni immaginarie» concepita dal dottor Faustroll, protagonista di un altro suo libro postumo –, Jarry era impegnato a provocare l’imbecillità del potere costituito, intonando in falsetto la Chanson du décervelage.
Teneva in casa dei gufi, liberi di volare e imbrattare i pochi mobili, le ragnatele non venivano tolte in quanto considerate decorative. In un appartamento minuscolo, soprannominato grande chasublerie, campeggiava un fallo enorme in pietra che lui valutava una «riduzione» del suo. Adorava le rivoltelle. Esistono numerosi aneddoti al riguardo ma senz’altro uno dei più divertenti (e, al contempo, sconcertanti) è quello che lo vede esercitarsi a sparare in un cortile dove giocano alcuni bambini. Arriva, preoccupatissima, la madre di uno di questi facendo tutte le rimostranze del caso e lo scrittore le risponde seraficamente, sillabando le parole con la cadenza metallica e gracchiante di Ubu: «Non si preoccupi, si-gno-ra, glie-ne fa-re-mo de-gli al-tri, glie-ne fa-re-mo de-gli al-tri».
Verrà citato in giudizio da Trochon, un commerciante che gli vendette una bicicletta all’ultimo grido, senza vedere il becco di un quattrino. Per vendicarsi Jarry scriverà un’opera buffa, Pantagruel Troccon (equivalente a «troppo cretino»). La vertenza giudiziaria durò fino alla morte, avvenuta a Parigi il 1° novembre 1907, a trentaquattro anni. L’ultima provocazione? La richiesta al suo «merdico», in punto di morte, di uno stuzzicadenti.
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