Tutti arriviamo all’età adulta portando con noi particolari fardelli. Se alcuni sono personali, individuali, solo nostri, altri sono più propriamente classificati come politici, e dipendono dal momento storico in cui ci si è trovati a vivere. Credo che gli adulti trattino e gestiscano in molti modi diversi il materiale – a volte radioattivo – del proprio passato e credo anche di non essere l’unica a trovare conforto nell’atto di creare un giardino. La mia infanzia particolare mi ha lasciato un desiderio, un bisogno permanente e assillante di un luogo sicuro, selvatico, disordinato, prospero e soprattutto privato.

ANELAVO A UNA CASA, ma il mio primo bisogno era un giardino. Diventare consapevole di questa esigenza cambiò il mio punto di vista su ciò che le persone fanno nei loro giardini, al di là del semplice creare angoli di paesaggio o uno spazio dove trascorrere la domenica pomeriggio. Nel corso di quest’ultimo anno di lavoro ho notato che in me si alternavano costantemente il bisogno di controllo – sfrattare il lamio! Ripulire le bordure! – e un desiderio di pienezza. Mentre le crisi familiari si susseguivano, mentre mi sorbivo gli incontri con gli avvocati per la questione della casa di mio padre, mi sono resa conto del ruolo che svolgeva il giardino nel mio modo di gestire i sentimenti.
Non parlo solo di tagliare il prato per smaltire il malumore o di diserbare un’aiuola in un momento di dolore. Sto parlando di come noi – e con «noi» intendo le persone che hanno vissuto qualche tipo di trauma, una categoria piuttosto ampia, credo – fronteggiamo il pesante fardello che portiamo, come lo conteniamo, quale pozzo per il combustibile esausto o quale deposito di stoccaggio improvvisiamo per un materiale che continua a emettere i suoi isotopi letali. Il manuale che mi ha aiutata a costruire un simile dispositivo è stato Modern Nature, il memoir e diario scritto da Derek Jarman per raccontare come aveva creato un giardino sulla spiaggia di ciottoli di Dungeness, dopo aver scoperto di essere sieropositivo.

L’autrice Olivia Laing

IL LIBRO È ENTRATO nella mia vita nel 1991, al momento giusto, emergendo dallo stesso desolante insieme di circostanze: il thatcherismo, fossilizzato nella nostalgia di John Major per il cricket e la birra calda; la crisi dell’aids, dieci anni senza una cura o un trattamento affidabile; e la clausola 28 del Local Government Act, del 1988, con la sua astiosa delegittimazione della famiglia omosessuale.
Attraverso una rete segreta di tunnel, quel libro guidò me e migliaia di altri in un mondo diverso, luminoso come l’Oz di Dorothy, il primo film che Jarman aveva visto da bambino. All’epoca mi attraeva il Jarman viaggiatore nel tempo, il coltivatore che amava le piante anche perché avevano la capacità di far risalire il passato fino al presente. Il suo tono è ciarliero, competente, professorale. «La Rosa mundi, con i suoi fiori striati di cremisi e rosa, è un’antica variante della Rosa officinalis del farmacista, la rosa dei provenzali. Fu introdotta da un crociato del XII secolo e immortalata da Guillaume de Lorris nel suo poema, il Roman de la Rose».
Poco importa che la botanica non fosse sempre solidissima (intendeva Rosa gallica officinalis?), o che a quei tempi io non cogliessi la metà dei suoi riferimenti. Le prime sezioni del libro, in particolare, sono ricche di nozioni sulle piante rinascimentali e medievali. Ecco l’utopista Thomas More sul rosmarino: «Quanto al rosmarino, lo lascio correre tutt’intorno ai muri del giardino, non perché piace alle api, ma perché è l’erba consacrata al ricordo e perciò all’amicizia, dal che deriva che un suo rametto parla un muto linguaggio».

COME AVREI VOLUTO conoscere quella lingua muta, saperla leggere con la stessa libertà con cui la leggeva Jarman. Alla fine di Jubilee, la sua Elisabetta I, in un abito di broccato bianco, dice qualcosa di simile, in piedi tra le pozze d’acqua della scogliera di Dancing Ledge, nel Dorset: «Codici e controcodici, il linguaggio segreto dei fiori». Ieratico, mistificante, immensamente antico e mutevole, che si rinnova all’infinito.
Fu grazie a Modern Nature che conobbi John Gerard, Galeno di Pergamo, Nicholas Culpeper, che avrei studiato nella decade dei miei vent’anni, anche se l’incantesimo operato da Jarman fu quasi dissipato dall’impiastro del nuovo linguaggio che dovevamo usare: «basato sulle evidenze, farmacognosia, citocromo P450». L’incantesimo tornò solo quando mi rimisi in giardino e le frasi riaffiorarono come acqua di falda. «La borragine dà coraggio. I campi sono ornati e disseminati di questi papaveri selvatici». Ripresi in mano la mia copia dopo la festa, forse per la ventesima volta.
A ogni nuova lettura sono più vecchia, più padrona di me stessa – mi avvicino, infatti, all’età di Jarman all’epoca della stesura del libro, che all’inizio del diario, scoprii con stupore, aveva solo quarantasei anni – così che Modern Nature continua a rivelarsi, ad aprirsi, mostrandomi cose che, in precedenza, non avevo notato o capito.

 

SCHEDA

Con la presentazione nella sala teatro Piccola Fenice di Trieste del nuovo libro della scrittrice britannica Olivia Laing, Il giardino contro il tempo. Alla ricerca di un paradiso comune (Il Saggiatore, in libreria da domani pp. 368, euro 26, traduzione di Katia Bagnoli) – di cui pubblichiamo qui una anticipazione – si apre oggi l’8/a edizione del festival «Scienza e Virgola», promosso dalla Sissa e diretto da Paolo Giordano. Sei giorni di incontri, dialoghi e 24 libri con tre anteprime. Il programma della kermesse è consultabile su scienzaevirgola.it