Visioni

Janis Rafa, il mio paesaggio oltre l’immagine dell’umano

Janis Rafa, il mio paesaggio oltre l’immagine dell’umanoJanis Rafa

Intervista Conversazione con l’artista greca a cui Videocittà dedica un focus. Gli animali, la Grecia nelle periferie post-industriali, la ricerca dei margini. Tra le opere proposte, «Lacerate»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 13 luglio 2023

Un interno di stanze barocche in cui si aggirano diversi cani da caccia tra nature morte e il corpo di un uomo senza vita con il collo che sanguina (Lacerate, 2020). Una banda che suona gli ottoni per migliaia di polli in un allevamento la notte prima che vengano abbattuti (If I Ever Get A Monument Chickens Will Do It For Me – Requiem#3, 2021). Un albero le cui foglie cadono fuori stagione per il colpo di una macchina (Winter Came Early, 2015). Un camion rovesciato sul ciglio di una strada nella notte, con i corpi degli animali che trasportava sbalzati mortalmente intorno (Requiem to a Fatal Incident, 2015). È un paesaggio potente di rovine, fallimenti dell’umano, violenza, epifanie quello dell’artista greca Janis Rafa in cui l’uomo lascia spazio a altre figure, gli animali soprattutto, e la parola a suggestioni di sensi e significati lungo il bordo delle immagini. E quando riporta l’umano nel suo gesto come accade in Kala azar (2020), con una giovane coppia che percorre una Grecia post-industriale per dare una sepoltura degna agli animali, la narrazione intreccia i due elementi in un destino comune.

ARTISTA che lavora tra videoarte e cinema Rafa – con la magnifica complicità da diversi anni di Thodoros Mihopoulos alla fotografia – è a Roma oggi ospite di Videocittà (fino al 16) – che nella sezione di videoarte, curata da Damiana Leoni e Rä di Martino le dedica un focus. Un programma composto da lei stessa insieme a Leonardo Bigazzi – curatore per In Between Art Film che ha prodotto Lacerate presentato alla Biennale arte di Venezia del 2022. Spiega Rafa, con cui parliamo su zoom da Atene dove vive: «L’idea era quella di presentare una selezione di lavori brevi e uno più lungo, i primi sono pezzi di videoarte che restituiscono una idea del mio modo di lavorare; sono composti da una sola ripresa, tutto accade lì. I due lavori che fanno parte della serie Requiem sono un requiem alla vita non umana. In diverso modo e con una differente struttura dichiarano una sorta di addio politico al corpo animale, affermando che si deve dare maggiore attenzione e importanza anche ai corpi morti degli animali».

Il tuo lavoro si muove sul confine tra più linguaggi, è stata una scelta sin dall’inizio?

Ho studiato arte visiva all’università con un dottorato sulla teoria e la pratica del video. L’immagine in movimento mi ha sempre interessata sia come documentazione che come video-saggio. Mi sono avvicinata pian piano alla finzione quando ho iniziato non solo a «registrare» il reale ma a ricomporlo, a ricreare quello che avevo visto. Al centro della mia attenzione ritornano gli animali selvaggi e domestici che hanno fatto sempre parte del mio vissuto. Forse proprio questo elemento autobiografico mi ha portata a esplorare la giustapposizione tra umano e animale e a focalizzarmi sul non-umano, sui dettagli e sulla comprensione di un paesaggio che non è solo quello abitato dall’uomo.

Questo paesaggio nelle tue opere porta in sé quasi sempre le tracce di una devastazione che riguarda i luoghi e ciò che vi si muove. Nel tuo film, «Kala azar» è molto evidente, seguendo la coppia protagonista e i suoi vagabondaggi scopriamo il territorio spesso abbandonato di una Grecia post-industriale.

Kala azar è stato anche il mio primo vero film, rappresenta per me un grande viaggio, due dei video che si vedranno nel programma di Videocittà sono parte di Kala azar ma sono anche autonomi – e questo dimostra come i diversi modi di lavorare si nutrono l’uno dell’altro. Sono attratta da quei particolari che raccontano la città e le periferie laddove non sono ancora modernizzate ma non sono nemmeno più rurali con un aspetto di abbandono tra l’industriale e la campagna. A Atene sono spesso così, presentano un progresso dell’umano e al tempo stesso dichiarano il suo fallimento. È più interessante vedere come il non-umano esiste sul confine tra l’addomesticato e il selvaggio, in ciò che è irriconoscibile, che non si può nominare; per questo continuo a tornare in quei luoghi.

Si può dire che la Grecia sia un riferimento centrale anche se questi paesaggi fanno pensare al mondo occidentale di oggi.

Direi che c’è una certa familiarità col paesaggio della Grecia o che cerco di familiarizzare con esso. La mia pratica artistica nasce certamente da questa familiarità anche se cerco di mantenere più livelli di lettura che possono riguardare appunto l’attività umana, la politica, le relazioni tra uomo e animali e via dicendo. Mi piace creare mondi e interpretazioni possibili che mettono al centro spazi e comunità marginalizzati, che riguardano per esempio i rifugiati costretti a condurre una vita nascosta. Sono figure che restituiscono la complessità delle relazioni in una realtà in cui oltre all’umano e all’animale vi sono altre forme di vita.

«Lacerate» che viene riproposto dopo la presentazione alla Biennale arte, è invece ambientato in un interno e pur mantenendo i riferimenti della tua poetica, umano e animale e violenza sembra porli in un altro contesto.

Lacerate mi è stato commissionato da In Beteween Art and Film durante la pandemia, nel 2020. Il tema era la violenza domestica e di genere – in quel periodo i casi si erano moltiplicati. Visto che ero obbligata a lavorare in interni ho dovuto resettare la mia pratica artistica cercando di trovare un altro modo per dare forma ai miei universi. Prima di entrare nel soggetto ho iniziato a ideare una composizione visuale, non volevo rappresentare la donna come una vittima pur parlando dell’aggressione di cui era oggetto, così l’ho immaginata in una casa che incapsula il tempo e lo spazio, che è divenuta una trappola nella quale è possibile scorgere le connessioni con gli animali domestici ritratti anch’essi nello spazio chiuso della vita umana. I cani divengono simbolo dell’animalità e dell’istinto, e anche elemento di protezione e liberazione nei confronti della donna. Il riferimento visivo principale è un’artista italiana, Artemisia Gentileschi col suo Giuditta che decapita Oloferne, come simbolo del tradimento e della vendetta. Credo che il modo più efficace per parlare della violenza sia riflettere sull’eredità della sua trasmissione tra le generazioni, e dagli umani agli animali. Compresa la nozione di violenza anche storica che riguarda la rappresentazione nell’arte e nella storia occidentale in cui la figura umana domina costantemente la natura e ogni altro luogo.

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