Del padre che non vede da decenni Tadek ha solo dei ricordi confusi, nei quali le ombre più scure dominano largamente sui momenti di luce. Eppure quando la sua vita sembra sul punto di andare in pezzi, all’indomani di una separazione dolorosa che lo allontana anche da un figlio ancora piccolo, decide di lasciare Gerusalemme per andare a cercarlo in Polonia, dove il vecchio Stefan vive in una casa di riposo per reduci di guerra di Varsavia. Quella ricerca si trasformerà in un incontro almeno parziale, scandito da momenti via via durissimi, teneri, a tratti perfino comici. Attraverso la Polonia di fine anni Ottanta, dove i fantasmi dell’antisemitismo e la memoria spesso negata della Shoah continuano ad interrogare una società in crisi e che stenta ancora ad intravedere la possibilità di nuovi orizzonti, Tadek finirà per caricarsi letteralmente sulle spalle l’iroso e aggressivo Stefan, un passato di alcolizzato, marito e padre violento, uomo propenso alla rissa, per muovere insieme alla ricerca di una verità che li possa riconciliare con sé stessi.

Vincitore di premi significativi sia in Israele che in Francia, Canaglia di Itamar Orlev (Giuntina, pp. 400, euro 19, traduzione di Silvia Pin) racconta un doloroso processo di riconoscimento dove le incertezze dei sentimenti si intrecciano con i silenzi della Storia che in quel contesto riguardano soprattutto il periodo dell’occupazione nazista e le complicità locali nell’Olocausto.

Lo scrittore Itamar Orlev

Lo scrittore e drammaturgo israeliano è tra i protagonisti del festival «La città dei lettori», in corso a Villa Bardini a Firenze, dove domani alle 20 presenterà il suo romanzo insieme a Wlodek Goldkorn, con la traduzione di Raffaella Scardi.

All’origine di «Canaglia» c’è anche una storia vera. Quando ha capito che ne avrebbe potuto trarre un romanzo?
Trentacinque anni fa un giovane regista polacco si rivolse a mio padre, Uri Orlev, che è un noto autore di libri per ragazzi, per un adattamento cinematografico di uno dei suoi libri. Lavorando insieme alla sceneggiatura, hanno cominciato a scambiarsi ricordi d’infanzia visto che anche mio padre è nato in Polonia, lui negli anni Trenta – è un sopravvissuto all’Olocausto – mentre il regista, Ami – Tadek in Polonia – negli anni Cinquanta. Affascinato dalle storie che ascoltava, mio padre progettò così di scrivere un libro ispirato alle vicende di Ami: per questo gli fece una lunga intervista, raccolse molti materiali, ma poi non ne fece nulla. Mi ha detto che non riusciva ad entrare in contatto con un personaggio così oscuro come Stefan, il padre del regista. Evidentemente quella storia gli era però rimasta in testa perché oltre dieci anni più tardi, dopo che anch’io avevo cominciato a scrivere, mi chiese se fossi a mia volta interessato a trarne un libro. Così mi sono fatto dare tutte le carte e gli appunti che aveva raccolto e ho cominciato a lavorarci, ma dopo aver scritto una cinquantina di pagine ho capito dai commenti di mia moglie che il testo non funzionava. Mi sono reso conto allora che le buone storie hanno la tendenza a usarci per essere scritte, piuttosto che farsi utilizzare per raccontare ciò che vogliamo noi. Un paio di anni più tardi, dopo la nascita del mio primo figlio, ho capito all’improvviso quello che volevo raccontare: il complicato rapporto tra padri e figli. Così ho preso una parte delle storie di Ami, ne ho aggiunte alcune mie, costruendo un romanzo che combina tra loro realtà e immaginazione.

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Mano a mano che Tadek ritrova il padre perduto, si rende conto di quanto Stefan sia una vera «canaglia», eppure gli vuole bene e cerca il suo riconoscimento. Non è libero di scegliere se amarlo o meno?
Non penso che l’amore o l’odio siano qualcosa che puoi scegliere. Viene fuori così, istintivamente anche con i nostri genitori, anche con una persona come Stefan. Del padre, Tadek ha sia dei bei ricordi che altri molto brutti, ma a differenza di suo fratello e delle sue sorelle, che non sono disposti a perdonare o a cercare di capire, lui vuole incontrare di nuovo quest’uomo per rendersi conto di cosa prova davvero nei suoi confronti. E penso che alla fine capisca di amarlo e odiarlo allo stesso tempo. Quello del vecchio Stefan è un personaggio complesso. È assente, egocentrico, alcolizzato e oscuro, ma anche divertente, carismatico, pieno di fiducia. Allo stesso modo, quando Tadek è costretto a portarlo sulla schiena, quell’uomo vecchio che è stato forte, grosso, muscoloso, non pesa quasi nulla. E quando deve lavarlo nella vasca scopre un corpo fragile e magro. Perciò credo che Tadek cerchi di amare il padre che odia: non ha del tutto successo, ma un po’ ci riesce. E da questo incontro capisce anche come accettare gli aspetti problematici del proprio carattere, per poter essere a sua volta, a differenza di quanto ha fatto Stefan con lui, un padre migliore per suo figlio.

Quello di Tadek e Stefan attraverso la Polonia non è solo un viaggio attraverso una memoria dolorosa e terribile, ma sembra avere anche una dimensione picaresca che talvolta provoca il sorriso nei momenti più cupi. Ridere è un buon modo per lenire le ferite che il romanzo stesso fa emergere?
Penso che l’umorismo sia uno degli elementi più importanti della nostra vita e che ci aiuti ad affrontare i momenti, i ricordi e le situazioni più difficili. Non mette in discussione né deride le difficoltà, ma ci aiuta a considerarle nelle debite proporzioni. E nella letteratura, questo è ancora più importante. Personalmente cerco di mettere dell’umorismo in tutti i testi che scrivo. Molti anni fa è uscita una mia commedia che il pubblico ha accolto ridendo e piangendo per tutto il tempo. Se avesse solo riso o solo pianto, l’esperienza non sarebbe stata completa. Perciò credo che non dovremmo prenderci troppo sul serio; come esseri umani, ma certamente anche come scrittori.

Se il bene e il male appaiono sfumati nella relazione che si va ricostruendo tra Tadek e Stefan, questo interroga anche il nostro sguardo sul passato? In Polonia, dove è ambientata la storia, l’antisemitismo sembra ancora molto presente, pur in assenza di ebrei, e la Shoah nel Paese è stata resa possibile da tanti zelanti carnefici ordinari, non solo dei nazisti convinti…
Mio padre dice che proprio come gli eschimesi hanno cinquanta parole diverse per la neve, in polacco ci sono cinquanta parole diverse per gli ebrei. Non sono rimasti quasi più ebrei in Polonia. Prima della guerra ce n’erano tre milioni e mezzo, i nazisti ne uccisero il 90% e gli altri se ne andarono principalmente in Israele e negli Stati Uniti. Ho letto che oggi ci sono tra i 7mila e 12mila ebrei. Eppure i polacchi incolpano gli ebrei per i loro guai e ci sono molte manifestazioni di antisemitismo. Questo è un paradosso che può essere spiegato solo dal fatto che l’antisemitismo è una componente dell’identità polacca che si è costruita nel corso della Storia – in Polonia come in altri Paesi europei -, quando lì vivevano un gran numero di ebrei. Il tentativo del governo di destra di Varsavia di cancellare o sminuire il ruolo che i polacchi hanno avuto nell’eliminare i loro vicini ebrei è scandaloso. D’altra parte, va ricordato che solo alcuni polacchi ne sono stati responsabili e che questa non è mai stata la politica ufficiale del Paese. E bisogna ricordare che anche la Polonia ha sofferto molto a causa dei nazisti che hanno ucciso circa tre milioni di polacchi. Inoltre, a differenza degli ucraini e dei lituani che hanno collaborato con l’occupazione nazista o degli olandesi e dei francesi che in maggioranza l’hanno accettata, i polacchi non hanno smesso di combattere i tedeschi e ci sono stati molti più casi di persone che hanno salvato gli ebrei che in altri Paesi. Qualcosa del genere riguarda anche Stefan che non è mai stato antisemita, eppure non smette mai di fare commenti antisemiti, raccontare barzellette antisemite o maledire gli ebrei perché questo è il linguaggio che deriva dalla sua identità polacca.

Stefan è stato internato dai nazisti nel campo di Majdanek e poi, come membro dell’Armia Krajowa, il movimento di resistenza polacco che si opponeva anche all’Armata rossa, è stato perseguitato dai russi. Il romanzo evoca alcune delle radici storiche della guerra in corso in Ucraina. Come valuta ciò che sta accadendo?
Siamo di fronte ad una tragedia terribile e le azioni di Putin sono intollerabili, imperdonabili e derivano da megalomania e paranoia: tentare di cercare delle giustificazioni per le sue scelte è sbagliato. Quello che è successo a Stefan può spiegare alcuni dei suoi comportamenti post-traumatici ma non lo giustifica in alcun modo e lo stesso vale per Putin. Quella dell’Ucraina è però solo l’ultima di una serie di invasioni ingiustificate di cui si è reso responsabile anche l’Occidente, dall’Iraq all’Afghanistan. Perciò penso che il giusto sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa debba segnare l’inizio di un coinvolgimento globale più grande e più attivo nella difesa dei popoli che vengono attaccati.