Etgar Keret, la speranza nascosta nel saper raccontare
L'intervista Parla lo scrittore israeliano che sarà domani a Milano per Bookcity. In «Un intoppo ai limiti della galassia» (Feltrinelli), l’ironia cela spesso l’idea di una seconda chance. «Una storia può essere un modo per affrontare problemi che non sei stato in grado di risolvere. O per fare la pace con qualcuno»
L'intervista Parla lo scrittore israeliano che sarà domani a Milano per Bookcity. In «Un intoppo ai limiti della galassia» (Feltrinelli), l’ironia cela spesso l’idea di una seconda chance. «Una storia può essere un modo per affrontare problemi che non sei stato in grado di risolvere. O per fare la pace con qualcuno»
Un uomo che si fa sparare dal cannone del circo per rivedere, in volo, il figlio di cui ha perso le tracce da tempo. Un pesce rosso che la notte esce dall’acquario per guardare i suoi programmi preferiti in tv. Una coppia che finisce per dirsi la verità sulla fine del proprio rapporto mentre visita la sala dedicata alle piccole vittime della Shoah, allo Yad Vashem di Gerusalemme. In Un intoppo ai limiti della galassia (Feltrinelli, pp. 182, euro 16, traduzione di Alessandra Shomroni) Etgar Keret torna a costruire, con la tenerezza e il gusto dell’assurdo che gli sono propri, una galleria di personaggi e situazioni paradossali che sembrano indurre chi legge a riservare un sorriso, per quanto talvolta malinconico, alle tante disavventure della vita. Un modo, per lo scrittore israeliano, anche di suggerire grazie alla sua capacità di narratore un altro approccio al dramma della terra in cui vive. Keret sarà domani a Bookcity: alle 13 nella Sala Viscontea del Castello Sforzesco di Milano.
Uno degli autori del documentario «Etgar Keret: Based on a True Story», premiato lo scorso anno agli Emmy Awards, il regista olandese Stephane Kaas che ha passato dei mesi accanto a lei e alla sua famiglia, la descrive come «abitato da un bisogno compulsivo di raccontare delle storie», al punto che è difficile capire se si tratta di qualcosa che le è capitato o del frutto della sua fantasia.
Sento che il mio bisogno compulsivo di raccontare storie deriva dalla necessità di provare a mettere un po’ d’ordine al corso caotico della vita. Se nella vita reale qualcuno mi schiaffeggiasse in strada senza che potessi scorgere alcun motivo valido sul perché lo ha fatto, scriverò una storia su qualcuno che viene schiaffeggiato da uno sconosciuto solo per scoprire che quel ragazzo è in realtà suo fratello di cui aveva perso le tracce da quando erano bambini. Ai miei occhi è come se per questa via la natura apparentemente arbitraria e casuale della vita potesse essere sostituita da un elemento dotato di un senso migliore, in termini sia psicologici che emotivi.
Lei è figlio di una coppia di sopravvissuti all’Olocausto e ha raccontato di essere cresciuto con i racconti che le facevano entrambi i suoi genitori. Solo che mentre sua madre creava delle storie liete, di fantasia, suo padre pescava nei ricordi del dopoguerra, tra situazioni ambigue e personaggi loschi. Nei suoi libri riemergono entrambe le suggestioni?
Credo che tutte le mie storie di fantasia contengano in realtà un nocciolo biografico. La lezione più importante che ho imparato dalle storie del dopoguerra di mio padre è che lo storytelling può essere un modo per cercare di fare pace con problemi che non sei stato davvero in grado di risolvere o affrontare durante la tua vita. Così, attraverso una storia puoi scusarti per le cose che non hai fatto o hai fatto male, o per quelle per cui non hai mai avuto il coraggio di scusarti nella vita reale o, ancora, puoi perdonare e capire meglio coloro con cui ti sei scontrato o hai combattuto nella vita. Una storia è un «piano b», un’altra possibilità, una seconda chance per misurarti con qualcosa che non sei riuscito ad affrontare la prima volta.
L’idea di scrivere dei racconti spesso surreali, con un tocco di poesia e di ironia amara sembra avvicinarla alla tradizione letteraria ebraica europea più che al canone adottato da figure come Oz, Grossman o Yehoshua che hanno incarnato la generazione precedente di scrittori israeliani. Quali sono i suoi punti di riferimento letterari?
In effetti, se devo pensare agli scrittori che mi hanno influenzato di più mi vengono in mente i nomi di Franz Kafka, Isaac Bashevis Singer, Sholem Aleichem che nelle loro storie si misuravano con l’ansia e l’incapacità umane, con la difficoltà di fare fronte a problemi e minacce spesso terribili. E lo facevano, come tanti altri scrittori ebrei prima di loro, ricorrendo all’umorismo e un briciolo di speranza. Un modo per esorcizzare la paura e non smettere di esprimere sempre compassione e amore.
Analogamente, lei ha spiegato di sentirsi a volte più vicino agli ebrei della diaspora che a ciò che ci si potrebbe aspettare da un israeliano. Vale a dire?
In qualche modo gli ebrei della diaspora si sono sempre fatti portatori di due identità: la loro identità nazionale e quella ebraica. Così, un ebreo italiano può guardare gli altri italiani intorno a sé e dirsi: «Questi italiani sono pazzi», e lo può dire come ebreo. Oppure, può andare nella sua sinagoga, guardare le persone che gli stanno intorno e dire a se stesso: «Questi ebrei sono pazzi», e può dirlo da italiano. La capacità di attingere a due livelli di pensiero per descrivere la tua esperienza quotidiana rende la vita molto più divertente e dispone alla riflessione più che al nazionalismo.
Rispetto ai suoi primi libri, titoli come «Pizzeria kamikaze» o «Gaza blues», in quest’ultima raccolta, come nelle sue opere degli ultimi anni, il conflitto israelo-palestinese o la difficile situazione politica del suo Paese sembrano essere meno presenti. Una scelta deliberata?
In realtà mi sembra che sia all’interno della società israeliana che negli ultimi anni il confronto sul conflitto si è andato progressivamente riducendo, fino a scomparire quasi del tutto. È come se gli israeliani non volessero nemmeno riconoscere che come cittadini, elettori, e via dicendo, possono – e possiamo – influenzare, o almeno tentare di farlo, gli esiti del conflitto stesso. Nelle mie storie penso perciò emerga una qualche traccia di questo sentimento di mancanza di responsabilità che respiro intorno a me e, al contempo, il senso e la frustrazione per l’impotenza e la perdita di controllo sulla propria vita che caratterizza il Paese. Perciò, quando affronto la questione israelo-palestinese, lo faccio in modo indiretto o attraverso metafore. Come avviene in alcuni racconti di questa raccolta, in particolare «Finestre», che parla dell’intelligenza artificiale, o «Tabula Rasa», che evoca i cloni, ma che mettono in scena le emozioni e i sentimenti di personaggi diversi ma legati da un medesimo destino o di coloro che vivono in una società che non li considera però pari agli altri cittadini.
Il suo impegno come uomo di sinistra e per una soluzione pacifica e giusta del conflitto è stato spesso alla base dei suoi interventi sulla stampa internazionale. Ora, di fronte al prolungarsi dell’impasse politica in Israele, come guarda al futuro?
Noto come nella sfera pubblica del Paese abbiano acquisito sempre più forza le tendenze religiose e nazionaliste. Per effetto di questa crescita delle destre si è fatta largo nella società una narrazione secondo la quale Israele sarebbe una sorta di semplice spettatore passivo della situazione della Palestina e non, come è in realtà, un’entità dominante responsabile in molti modi del futuro dei palestinesi. Fino a quando Israele non riconoscerà il suo ruolo di parte più forte in questo conflitto, in particolare una parte che deve assumersi la responsabilità per il continuo e distruttivo effetto del controllo esercitato sui territori occupati, non c’è alcuna possibilità che le cose cambino in meglio. Anche se lo facciamo, non vi è alcuna garanzia che tutti i problemi possano essere effettivamente risolti, ma almeno, nel momento in cui assumeremo fino in fondo il nostro ruolo e la nostra responsabilità per questi problemi, avremo almeno la possibilità di iniziare il percorso per un vero cambiamento.
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L’impegno civile tra racconti e film
Nato a Ramat-Gan, in Israele, nel 1967, Etgar Keret è il terzo figlio di genitori ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto. Da sempre schierato su posizioni di sinistra all’interno di Israele e impegnato per una pace giusta tra israeliani e palestinesi, lo scorso anno, accanto a decine di altri autori e autrici israeliani – tra cui Zeruya Shalev, David Grossman, Orly Castel Bloom et Amos Oz – ha firmato una lettera indirizzata all’allora premier Netanyahu perché bloccasse il rimpatrio dei rifugiati da Eritrea e Sudan. È autore di oltre una decina tra romanzi e raccolte di racconti, tra cui: «Pizzeria kamikaze», «Gaza blues», «All’improvviso bussano alla porta», «Sette anni di felicità». Le sue opere, alcune delle quali erano state pubblicate da e/o sono ora in corso di pubblicazione da Feltrinelli. Regista e sceneggiatore ha diretto insieme a sua moglie, l’attrice e regista Shira Geffen, il film «Meduse» che ha vinto la Caméra d’Or a Cannes nel 2007 e ha scritto diversi film per la tv israeliana.
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