Economia

Istat: nel secondo trimestre 2019 è probabile un Pil negativo

Italia in recessione demografica

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 21 giugno 2019

All’opera buffa di quello che doveva essere l’«anno bellissimo» della «ripresa incredibile», questo l’auspicio per il secondo semestre del 2019 fatto dal presidente del Consiglio Conte prodigo di visioni immaginifiche, ieri l’Istat ha aggiunto un nuovo capitolo. La crescita del prodotto interno lordo (Pil) rallenterà ancora nel 2019. In meno di un anno si è passati dal baldanzoso +1,5% a un modestissimo +0,1%. Ma potrà essere, al 65% delle probabilità, ancora inferiore. È probabile una contrazione del Pil, e non una ripresa miracolosa, per il secondo trimestre più atteso – dal Palazzo – della storia. Non si tratterebbe di una ripresa, ma di una crescita zero, o addirittura negativa. La stima è contenuta nel «Rapporto annuale Istat 2019», presentato ieri alla Camera. Ci sono 35 possibilità su 100 che tale scenario non si avveri. E infatti il presidente Gian Carlo Blangiardo, a margine della presentazione del rapporto, ieri ha sostenuto che questo gioco previsionale non mette «in discussione la stima su base annua (+0,3%), che ancora confermiamo. Nella seconda parte dell’anno riteniamo che possa esserci una discreta tenuta». Al momento, tuttavia, è «relativamente elevata» la probabilità della «contrazione». L’anno potrebbe anche non essere «bellissimo», ma almeno un bluff riuscito.

In attesa delle nuove stime, l’economia resta stagnante, condizionata dalla debolezza dalla domanda interna e, in particolare, dei consumi privati. E non solo da una decelerazione delle esportazioni e importazioni, derivanti dalla guerra dei dazi tra Usa e Cina e dal rallentamento dell’economia manifatturiera tedesca (-2,5% ad aprile) da cui dipende quella italiana. Questo dato ristabilisce una valutazione più equilibrata della situazione rispetto a quella fornita dal governo e dalla sua maggioranza che tendono a occultare le cause interne della stagnazione.

Mentre si discute se il valzer dei numerini possa concludersi in una recessione, i dati Istat sulla recessione demografica sembrano inequivocabili. Nel 2018 sono nati 439 mila bambini, 140 mila in meno rispetto a dieci anni fa. Un calo pari a quello del 1917-1918 quando era in corso la prima guerra mondiale a cui seguì un’epidemia di «spagnola». Quasi la metà delle donne tra i 18 e i 49 anni non ha un figlio. Proseguendo questa tendenza nel 2050 la popolazione scenderebbe di 2,2 milioni rispetto ad oggi (58,2 milioni contro gli attuali 60,4). La tendenza in atto evidenzia la progressiva perdita di «forza lavoro potenziale»: nel 2050 la popolazione attiva tra i 15 e i 64 anni giudicata pronta ad entrare in un ciclo di produzione capitalistico potrebbe scendere di oltre 6 milioni di persone. A quel punto un’economia già piegata da una crisi pluridecennale si troverebbe ad affrontare una sostanziale riduzione di popolazione in età da lavoro con cui alimentare la «crescita» e la sostenibilità del sistema pensionistico. Finora un contributo fondamentale per tenere in piedi questa macchina è arrivata da 5 milioni e 234 mila stranieri residenti, l’8,7 per cento della popolazione. Un contributo che, secondo l’Istat, si sta ridimensionando, sia per la riduzione di chi sceglie di vivere stabilmente in Italia, sia per il calo delle nascite anche in questa fascia della popolazione. Negli ultimi dieci anni è enormemente aumentata la fuga dal paese degli italiani, 420 mila residenti. Ed è aumentata anche l’emigrazione interna dal Sud al Nord, 250 mila, tra i 20 e i 34 anni.

Denatalità, invecchiamento, calo delle migrazioni e aumento dell’immigrazione all’estero. Insieme al crollo della produzione, una catena di concause ed effetti che mette in crisi il sistema.

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