Se Israele non fosse Israele, la sua reputazione nel mondo sarebbe migliore o peggiore? Cioè se non fosse lo “Stato ebraico” nato tre anni dopo la Shoah, paradigma irraggiungibile (si spera) della malvagità umana, ci sarebbe più o meno tolleranza nelle opinioni pubbliche e nei governi, in particolare in Occidente, per il fatto che da sessant’anni occupa territori illegalmente, li colonizza con insediamenti anch’essi del tutto abusivi di ebrei israeliani, impedisce a milioni di palestinesi che ci vivono qualunque possibilità di autogoverno, per le sistematiche discriminazioni in termini di diritti che colpiscono circa 2 milioni (su 10) di suoi cittadini arabi, ora per i massacri che sta compiendo a Gaza? La risposta, credo, non può che essere contraddittoria.

Indiscutibilmente lo sguardo dell’Occidente verso Israele ha sempre goduto di un sovrappiù di benevolenza, effetto pressoché inevitabile del senso di colpa verso gli ebrei vittime di un progetto genocidiario, in larga misura realizzato, che fu concepito e attuato nel cuore dell’Europa. Nel caso della Germania questo retaggio è schiacciante, esplicitamente richiamato da esponenti di governo che ammettono: «Per la storia che abbiamo alle spalle, il sostegno della Germania a Israele è un postulato immodificabile».

Questo di più di benevolenza è evidente nel giudizio, che si sente ripetere spesso, su Israele «unica democrazia del Medio Oriente». Si può considerare democratico uno Stato che da oltre mezzo secolo nega ogni partecipazione democratica a milioni di persone su cui di fatto governa? E che non riconosce pari diritti a tutti i suoi cittadini? Non si può. Per diventare uno Stato democratico, Israele dovrebbe smettere di governare su comunità escluse dalla sua vita democratica, di discriminare tra cittadini ebrei e arabi, di comportarsi a Gaza in violazione dei più elementari standard di legalità internazionale. Così com’è oggi, invece, si avvicina terribilmente a uno Stato autoritario e confessionale. Assomigliando, per paradosso, a molti Stati arabi suoi nemici.

Dunque in questo senso sì: se Israele non fosse Israele ma uno Stato “qualunque”, è verosimile che l’atteggiamento del mondo, soprattutto del mondo occidentale, verso suoi comportamenti palesemente contrari ai criteri di uno Stato democratico, di uno Stato di diritto, di uno Stato che rispetta il diritto internazionale, sarebbe molto più severo. E però, al tempo stesso, la percezione di Israele da parte di tanti è drogata, in questo caso negativamente, dai riflessi pavloviani di antisemitismo molto diffusi nelle società contemporanee.

L’antisemitismo è una tentazione ricorrente nella storia dell’Occidentale. In passato ha vestito tre panni diversi, tutti squisitamente europei: l’antisemitismo cristiano – contro gli ebrei “deicidi” -, l’antisemitismo razzista e nazionalista – contro gli ebrei “razza” e comunità a parte rispetto ai popoli europei -, l’antisemitismo sociale di sinistra – contro gli ebrei quintessenza dello sfruttamento capitalista. Oggi a questi tre panni se n’è aggiunto un quarto, di matrice non occidentale: è l’antiebraismo islamico – improprio chiamarlo antisemitismo, visto che semiti sono anche gli arabi -, effetto collaterale della nascita di Israele, Stato per l’appunto ebraico, in Palestina.

Come ha ricordato Bruno Montesano in una bellissima riflessione giorni fa sul magazine online Lucysullacultura, l’antisemitismo non è solo storia ma è materia viva. Spesso evocato strumentalmente per delegittimare contestazioni radicali verso Israele, ma che si nutre di fatti concreti e dolorosi che accadono qui e ora e che attraversa in modo più o meno carsico le mobilitazioni di queste settimane contro la guerra di Israele a Gaza.

Il “mostro” prende vita come per una specie di reazione chimica secondaria, non è la prima volta che succede: l’indignazione e la rabbia per comportamenti totalmente esecrabili di Israele producono quale effetto collaterale la riattivazione dell’eterno pregiudizio antiebraico, in questo caso della sua versione sociale e di sinistra che vede in Israele anche in quanto “Stato ebraico” il simbolo perfetto del peggio dell’Occidente colonialista, imperialista, selvaggiamente capitalista. In quest’altro senso, allora, la risposta alla domanda iniziale è opposta: se Israele non fosse lo “Stato ebraico” che è, le sue colpe solleverebbero una minore riprovazione.

Naturalmente sarebbe da stupidi auspicare che la questione israeliana sia trattata da noi contemporanei prescindendo dalla storia. Però a me, (mezzo) ebreo disgustato da ciò che oggi è e fa lo “Stato ebraico”, piacerebbe molto che la discussione pubblica su quanto accade a Gaza, in Israele, in Palestina, potesse prescindere per un momento da questa lapalissiana premessa. Potrei, nell’occasione, dire serenamente due cose: che Israele è attualmente uno “Stato canaglia”, altrettanto esecrabile nei suoi comportamenti di Hamas, e che l’antisemitismo mi fa schifo anche quand’è al servizio della causa palestinese.