Quando Odisseo evoca le ombre dei morti per avere notizie dall’indovino Tiresia sul suo travagliato ritorno a Itaca, nel libro XI dell’Odissea, viene subito riconosciuto da Achille, il divino campione dei Greci. L’ombra dell’eroe gli si fa incontro, interrogando il compagno di guerra sulle ragioni della sua discesa nel regno di Ade, dove vagolano impalpabili e ottuse le parvenze di chi un tempo fu vivo. Odisseo gli rivolge un saluto trepido di ammirazione, definendo l’uomo il più felice di sempre, per il grande onore che dèi e mortali gli hanno reso in vita e per la primazia di cui gode nell’Oltretomba. Ma la reazione di Achille è sconvolgente e demolisce la logica eroica dell’interlocutore: pur di tornare in vita e godere di nuovo della luce del giorno, sarebbe disposto a lavorare da bracciante nel campo di un contadino povero. A tal punto la morte, fosse anche regnare tra i morti, non vale nulla per l’ombra del Pelide. È nulla.

Nel quadro dell’etica eroica avvalorata dalle parole di Odisseo, Achille resta sicuramente il più felice degli uomini, perché gloriosissimo e consegnato a fama eterna. L’ombra del più perfetto e valoroso degli Achei, invece, ci dice che la felicità è una questione di prospettiva e le prospettive sono mutevoli come la condizione umana. E in un appassionato viaggio prospettico ci imbarca È pericoloso essere felici L’invidia degli dèi in Grecia (Quodlibet «Saggi», pp. 259, euro 18,00), il nuovo saggio di Dino Baldi, filologo classico e scrittore, accompagnandoci lungo le rotte di un’idea e della sua storia, da Omero agli albori dell’èra cristiana, con accuratezza e un gusto naturalmente felice del racconto, che rende vivo e sensibile a chi legge l’amore che lo scrittore porta alla materia del suo discorso.

La riflessione di Baldi si impernia su un concetto adiacente, per così dire, a quello di felicità e molto vitale, insieme alla visione del mondo che presuppone, nella mentalità greca, ovvero «l’invidia degli dèi» nei confronti dell’umanità, lo phthónos theôn. Che cosa gli dèi avrebbero da invidiare a noi poveri mortali? Per l’appunto la felicità, quando essa supera il limite della nostra miseria costitutiva e altera l’equilibrio negli ingredienti della condizione umana di base, risultante di una mescolanza aleatoria di beni e di mali. Troppa ricchezza, troppo potere, troppa bellezza, troppo orgoglio, ci sollevano eccessivamente da terra esponendoci all’attenzione di occhi misteriosamente obliqui; turbano l’armonia cosmica, chiamano inesorabilmente un intervento riparatore, attribuibile a invisibili e imperscrutabili potenze superiori, gli dèi.

Anche se, come egli stesso precisa, «non esiste un corpus di testimonianze coerenti e riducibili a sistema», Baldi si mette con pazienza sulle sue tracce e ne ricostruisce di fatto uno, offrendoci una messe di documenti che vanno dall’epoca arcaica all’età imperiale, da Omero ed Esiodo, Solone, Pindaro, passando per Erodoto, i tragici, Platone, Aristotele, fino a Plutarco e Polibio. Questo materiale si fa oggetto di un’analisi in cui storia, mito, poesia, teatro, filosofia sono convocati a sostanziare un’esposizione puntuale e insieme piacevolmente narrativa, un ragionamento serrato e un dialogo vivace con il lettore.

Se in Omero ed Esiodo lo phthónos theôn emerge solo in modo vago, da allusioni al male, in senso generico, come componente imperscrutabile dell’essere stesso, è invece apertamente tematizzato nel V secolo a.C., con particolare rilievo in Erodoto. Più che di «invidia degli dèi», traduzione invalsa dell’espressione greca, bisognerebbe parlare, come sottolinea l’autore, di un’imperscrutabile ostilità, responsabile dei rovesci di fortuna e della precarietà di ogni nostro bene, della malevolenza, al limite del vizio, di un misterioso piano alto – e altro – dell’esistente rispetto al nostro. Corradicale del verbo phtíno, nel senso di «diminuire», e di «rovinare», con rimando a un ‘troppo’ da ‘togliere’ per ristabilire un ordine violato, lo phthónos theôn viene respinto da Platone perché incompatibile con la credenza in divinità sommamente giuste e benevole, e contestato, come retaggio di una mentalità primitiva e illogica, dai difensori di un ordine razionale del cosmo, da Aristotele ai Padri della Chiesa.

In realtà, spiega Baldi, lo phthónos theôn non è il residuo di una fase arcaica della religione greca, bensì una permanenza e un problema, per così dire, originario, che investe la condizione umana, la nostra inadeguatezza di esseri fuori posto ovunque: mal equipaggiati a vivere rispetto ad altre specie animali, cosmologicamente insignificanti eppure incapaci di rimanere entro i limiti costitutivi, pieni di paure e insieme percorsi da ambizioni di Titani, pronti a dare la sfida al cielo. Di tutto questo groviglio contradditorio, i Greci si sono fatti carico per primi alle nostre latitudini e certamente possiamo essere loro grati. «L’invidia degli dèi» è dunque, come chiarisce molto bene questo saggio, un elemento di risposta del pensiero greco di fronte alla «resistenza del mondo a essere compreso», «uno dei tanti modi per dare la sua parte all’insensatezza e alla proteiforme complessità del vivere».

A questa fase non segue però una rassegnata passività né l’impulso a naturalizzare l’ingiustizia del mondo, bensì un piano d’azione: bisogna tenere conto che ogni cosa muta nel ciclo instabile della vita. Insomma, è pericoloso essere felici e dimenticarsi di essere anche umani, esposti a forze insondabili, phthónos, némesis, moíra, týche, molti nomi per dire quello che ci condiziona e trascende. Un’altra indicazione ci fornisce il pensiero greco dalle pagine di Dino Baldi: si può reagire davvero al male imperscrutabile e alla nostra precarietà solo nel quadro della pólis, ovvero in una dimensione collettiva, dove si tenta insieme di organizzare il disordine, indirizzandolo verso un senso e un bene comuni, coscienti che non si può essere individui felici in un mondo infelice.