Insegnare il latino per una sfida storica, non perché sia geniale o immortale…
Nessuna vacua lode delle lingue morte, nessuna definizione del latino come «geniale» oppure «immortale», nessuna ispirata frase sulla «perenne attualità dei classici»: dopo molti, forse troppi volumi sulla decadenza e la resurrezione delle lingue antiche in Italia, quello di Guido Milanese (Le ragioni del latino, Morcelliana/Scholé, pp. 152, € 16,00) va segnalato perché è alquanto diverso.
Plausibilmente, l’autore non ricerca per tramite del suo libro profittevoli «passaggi» televisivi: importa invece che in molti punti egli percorra strade diverse da quelle correnti.
La crisi del latino, e segnatamente del suo insegnamento, è un fatto noto, dentro e fuori le scuole. Le cause sono insieme linguistiche e culturali: scarso il profitto dello studio (come già in passato, in verità), debole la presenza della cultura classica nel «discorso» comune, sempre più felicemente ignaro del passato.
Il punto di vista da cui Milanese guarda al problema lo conduce a una diagnosi severa (e provocatoria) sui motivi che hanno condotto a questo esito.
La tesi è argomentata con sintetica chiarezza, entro le dimensioni e la destinazione del libro, ma con l’impegno di impostare un largo ripensamento. Al centro non sta tanto la didattica della lingua latina: la questione è discussa a monte di questo punto, sicché il libro riflette non tanto il come, quanto il che cosa, e il perché.
Viene richiamato con forza il ruolo centrale del latino nella cultura dell’Europa: secondo Milanese, la crisi attuale del latino dipende non solo dal maleficio della «tecnica», quanto dall’emarginazione di un elemento, il latino, già vivo e presente per secoli, in modi diversi, da Roma antica alle soglie dell’età moderna.
Solo tardi il rapporto con la lingua antica si irrigidì, per effetto di scelte classiciste, e con esito, sulla lunga distanza, rovinoso. Il culto che la cultura del Rinascimento ebbe per il latino «classico» condannò come degenerata e vitanda la lingua (di fatto vivente), in cui si era espressa la cultura medievale.
La scelta, inoltre, di affidare a pochi dotti il compito di degnamente emulare la prosa di Cicerone e Livio fece del latino, lo si vede oggi, una lingua morta.
Invece della continuità rappresentata, per esempio, in Letteratura europea e Medio Evo latino di Ernst R. Curtius (ristampato da Quodlibet: vedi Fabio Romanini, «Alias D», 13 novembre 2022), prevalse ovunque, anche nella scuola, un approccio scientifico-filologico, basato sull’idea, in sé inappuntabile, che il mondo antico sia un’unità da studiare in modo integrato.
Di qui la «necessità» dello studio congiunto di latino e greco (lo Humanistisches Gymnasion tradottosi poi nel nostrano Liceo classico) e di un apprendimento della lingua tutto spostato verso l’approccio storico e comparativo.
Miseria dello storicismo, dunque? Come il recupero di edifici antichi riusati nei secoli ha disfatto stratificazioni vitali, creando rovine artificiali senza destinazione (il caso del Mausoleo di Augusto), similmente, la «scienza dell’antichità» ha restituito (anche nella pronuncia) un latino incontaminato ma anche immobilizzato, e di fatto non più spendibile al di fuori del settore dei latinisti (talora oggi poco provveduti di institutio linguistica).
La rivendicazione del ruolo europeo del latino non è però un’operazione-nostalgia né una dismissione antifilologica: il libro, che contiene anche talune punte polemiche, è pienamente inserito nel presente, e dialoga con recenti contributi sul destino dei Classics (Bettini, Borgna, Giusto Traina).
Ridefinendo così le «ragioni del latino», con pacata fermezza, Milanese dimostra l’inconsistenza di tenaci idées reçues che, da sempre presenti nei discorsi dei difensori della lingua antica nelle scuole, hanno danneggiato più che promosso la causa che dichiaravano di propugnare.
Non è vero che meglio di ogni altro mezzo il latino «insegni a ragionare», che sia «insostituibile» palestra linguistica, che sia modello estetico o, peggio, «logico». Tanto più che, invece, molta parte di questo ragionamento deriva da tempi nei quali la lettura dei testi in latino era mezzo, e non fine, dello studio.
Secondo Milanese, anche l’idea che lo scopo dello studio sia la traduzione è improprio: e questa posizione turba chi, nella scuola, ritiene la competenza traduttiva parte importante della «diga» che previene la fine.
Vero è che nello studio del latino erano e sono proposti contenuti grammaticali legati non all’esperienza dei testi in lingua, ma all’esigenza di imparare a produrre testi in latino (come ormai solo nei tribunali rotali, poco interessati alla purezza stilistica…): per certo, i parlanti non si arrovellavano sul «passaggio dal gerundio al gerundivo».
Quanto ai testi, scelte recenti li hanno selezionati con criteri sempre più confusi e mal compatibili (eccellenza artistica, valenza culturale, esemplarità linguistica).
La conseguenza è stata la riduzione di un patrimonio vasto a «canone» classicheggiante, e non specifico: decenni fa si sapeva che il latino di una formazione pedagogica o scientifica o letteraria doveva privilegiare alcune letture: ora restano solo confuse e velleitarie «indicazioni nazionali».
In ogni modo, restano esclusi testi non letterari o tecnici, ma di incommensurabile influenza: ossia, non già i testi postclassici, ma il latino di Vitruvio, o la letteratura «invisibile» dei giuristi (cui è dedicato ora il libro di Dario Mantovani per Laterza).
Contro questo inaridimento, Milanese ripropone l’interesse di testi medievali e moderni in latino, fondamentali e abbordabili: molto giustamente osserva che il latino era «lingua internazionale egualitaria» d’Europa, perché non vi erano madrelingua privilegiati (come oggi, con il predominio dell’inglese).
Vero è, che per rendere praticabile quest’idea, servirebbe orientare la sempre più precaria formazione dei futuri insegnanti, e costruire strumenti adatti, oggi latitanti (a cominciare da dizionari, commenti e traduzioni).
Scarsa presenza anche per il latino cristiano, emarginato a scuola e fuori, per scelte di competenza, per riserva laicista, ma anche per effetto della sua dismissione da parte della Chiesa, anche nella liturgia. Con evidenza invece si richiama nel libro, oltre alla (perduta?) ricchezza del canto gregoriano, il pregio del latino liturgico.
Esso aveva il carattere alto di lingua sacra, differente in ciò dal sermo humilis della sacra scrittura di cui parlò Eric Auerbach, muovendo da una bella pagina di Benvenuto da Imola («sermo divinus est suavis et planus, non altus et superbus sicut Virgilii et poetarum»).
La presenza del latino a scuola è nel presente una sfida: come non capire che esso consenta ancora di percepire la diacronia delle lingue, rispetto a uno studio appiattito sul presente e allo studio quasi esclusivamente sincronico e centrato sull’uso delle lingue vive?
Anche il suo carattere «secondario», più volte evidenziato, sarebbe elemento di forza: non l’unicità di uno strumento originale, ma il rigenerarsi secolare di una coltura. Questa eredità potrà salvarsi, se assumerà le forme che il presente le assegna, adattandosi dunque, come sempre: ma urge far presto, perché la linea della tradizione è prossima a spezzarsi, e quando le Norne proclamassero: «Es riß!», difficilmente la si potrebbe ricomporre.
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