Sembra che il destino dell’opera di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, ora ripubblicata da Quodlibet con una nuova introduzione di Roberto Antonelli e un utilissimo Indice delle parole e delle cose («Saggi», pp. LII-924, € 34,00) sia all’insegna di una ricezione contrastata, in cui si confrontano modelli culturali diversi. Una nuova lettura di questo testo comunque fondativo della critica di secondo Novecento porta in superficie le stratificazioni del concetto di Europa; e l’inattualità della sua visione è leggibile anche, in diacronia, come progressiva sfocatura del centro dell’inquadratura – il Medio Evo carolingio come cuore della rinascita culturale – di fronte all’allargamento della scena ad altri particolari che via via si sono aggiunti alla nostra percezione, come l’oriente slavo e turco, senza tuttavia avere concentrato su di loro il nostro interesse.
Letteratura europea e Medio Evo latino – apparso in Svizzera nel 1948 – può sembrare oggi una vecchia foto in bianco e nero che preserva l’immagine certa dei nostri antenati, degli ascendenti in linea dinastica a cui pensiamo con un nostalgico affollamento di sentimenti: radici cristiane, tarda antichità, ancora più lontane origini greco-romane della cultura europea. A questo assunto così forte non fa da contraltare, oggi, un impianto teorico altrettanto capace di fornire una rappresentazione del mondo europeo; non c’è una narrazione condivisa e alternativa a quella di Curtius, ma una polverizzazione di casi letterari poco più che nazionali. Nelle nuova introduzione, Antonelli distingue sottilmente tra «letteratura europea» e «letteratura dell’Europa geografica e culturale».

Libro della Crisi
Ma la ragione principale della contrastata ricezione del libro di Curtius è ancora meglio riassunta nell’epiteto di «libro della Crisi» con cui il testo è stato etichettato; risiede, in sostanza, nella sua presunta disorganicità, che è piuttosto programmatica frammentazione delle questioni da lui trattate in atomi di argomentazione tematica o retorica – i topoi – liberamente ricomponibili dal critico in nuove macrostrutture di analisi. Da una parte, quindi, il segno della Crisi era la riduzione al suo nucleo essenziale dello spirito europeo lacerato dalla seconda grande guerra del Novecento: e il modo per realizzarla fu l’individuazione di un’amplissima serie di cellule testuali condivise e riutilizzabili, ciò che apparve quasi una rinuncia a una critica organica; dall’altra, Letteratura europea e Medio Evo latino avrebbe poi rivoluzionato il modo di fare critica, suggerendo lo «smontaggio» dei testi nelle loro componenti fondamentali; perciò confermando anche in questo modo la difficoltà di ricondurre a unità il nucleo delle discussioni.

18 capitoli, 25 questioni
Questa impostazione ha però consentito a Curtius di recuperare dalla retorica classica i loci communes, vale a dire i topoi, che nel libro rappresentano l’unità fondamentale di costruzione. L’opera è organizzata in 18 capitoli, seguiti da un Excursus di altre 25 questioni. Ogni capitolo, o punto dell’excursus, è poi costellato di esempi testuali. Per dare velocemente qualche esempio, l’apertura è dedicata programmaticamente alla «Letteratura europea»; si passa quindi al «Medio Evo latino» avanzando per «Topica», «Metaforica», «Classicità», «Manierismo» ecc. Tra gli excursus, «Errate interpretazioni della classicità nel Medio Evo», «Termini tecnici grammaticali e retorici usati come metafore», «Aforismi numerici», e via dicendo.
La sua impostazione teorica, che individua una lunga continuità di impiego di tali frammenti (fino alle soglie del Romanticismo), è credibile poiché poggia su schedine di attestazioni di cui il lettore fruisce continuamente durante la lettura. Se nel primo periodo della ricezione di Letteratura europea e Medio Evo latino si è intesa la forma-catalogo del libro come una disorganica enciclopedia di piccoli fatti, oggi siamo invece in grado di cogliere l’organicità di questa impostazione e suggerire che anche le scienze umane costruiscano filologicamente i loro «discorsi» per unità di informazione che si compongono di temi e sottotemi. Già nel 1946 Contini, nella sua Relazione delle cose di Ginevra, aveva scritto che «quell’operazione probabilmente “europea” di autocoscienza che consiste nel porsi il problema della cultura, invece di viverne semplicemente in atto la spontaneità e l’immanenza, equivale a situarla nel circolo spirituale, a misurarla in un’azione, ed è perciò prassi e politica della cultura». La ripresa di una prospettiva filologica e il vissuto della critica strutturalistica consentono appunto di recuperare con successo la lezione di Curtius, una volta superate dialetticamente le posizioni crociane e poi marxiste che in modo ideologico relegavano la filologia a disciplina strumentale e incapace di una visione complessiva (pesava anche la diffidenza dell’autore verso le masse, che si affacciavano sulla storia del Novecento e costituivano un segno profondo della Crisi).
Eppure il libro di Curtius può continuare a sembrarci irrisolto; tra i lettori italiani, in particolare, l’effetto di straniamento è esperienza non rara. Lo spiegherei, storicamente, con la sua precocità anticipatrice dello strutturalismo, che informa la sua organizzazione interna di elementi culturali e storici molto attuali per il periodo della sua prima pubblicazione, ma poi percepiti come troppo «militanti». Forse, in altre parole, fanno aggio sulla nostra lettura l’assuefazione al libro-repertorio e l’abitudine della nostra epoca a iniziare l’analisi a partire dalle piccole strutture: proprio ciò che abbiamo imparato da Curtius, insomma, può ostacolarci nel vedere in Letteratura europea e Medio Evo latino un libro per i tempi rivoluzionario, dotato di una sua profonda unità di concezione autoriale. Si ripropone così, da una prospettiva perfettamente rovesciata, un errore di visuale che non rende agevole un apprezzamento dell’opera come libro articolato ma non riducibile a moduli.
Oltre ai più ovvi approfondimenti (le ricerche, soprattutto italosvizzere, di padre Pozzi e della scuola di Ottavo Besomi), alcune linee di ricerca oggi produttive o sperimentali sembrano debitrici al lavoro di Curtius. Anche se, salvo errore, la linguistica di Coseriu non rimonta esplicitamente alla sistemazione del sapere operata nel grande repertorio dei topoi, in alcune applicazioni agli studi testuali si scorgono tratti affini. Penso alle Diskurstraditionen teorizzate da Peter Koch, e alla distinzione per generi testuali, che gradualmente stanno trovando applicazione anche nel panorama italiano come utili complementi ai classici spogli linguistici e alle discussioni sui generi letterari. Grazie a questa teorizzazione si coglie la persistenza attraverso i decenni e i secoli di modalità testuali e discorsive nei testi letterari, paraletterari e documentari: si contestualizzano testi che in passato si bollavano affrettatamente come «attardati» per osservarvi invece la persistenza di caratteristiche espressive e formulari ormai scomparse dall’uso, o almeno infrequenti nell’uso spontaneo.
Non mi pare estranea a questa «funzione Curtius» nemmeno la più recente ricerca di Franco Moretti sul distant reading, in cui il critico applica ai testi letterari una lettura quantitativa fondata sull’analisi computazionale dei dati. Se al calcolatore è demandata la ricerca dei dati, mentre la creazione del corpus è di responsabilità dello scienziato, il risultato richiesto alla macchina è un nuovo disegno delle strutture del testo, o anche l’individuazione di costanti formali. In Curtius la forza dell’organizzazione è data dalla persistenza storica dei topoi, ma in queste riflessioni di Moretti l’oggetto cercato è una struttura astorica che, proprio in quanto tale, prescinde dalla storia e perfino dai testi. La fiducia in questo metodo, perlomeno, è figlia del bisturi sicuro e implacabile di un chirurgo sopraffino come è stato Curtius: vi risiede la consapevolezza – perfino ideologica, se se ne volesse esasperare l’ideologia – della forza della Tradizione; direi anche la convinzione che la Storia sia poco più che la superficie in cui si manifestano alcune forme della Tradizione, che però va ricercata sottraendosi al ricatto dei consueti meccanismi di decodifica e di inferenza che ciascuno di noi applica per comprendere i messaggi.
Ai crociani e ai critici di ispirazione marxista l’apparente disinteresse di Curtius per il senso complessivo del testo, e la sua scomposizione in unità tematiche più piccole, è apparso come una rinuncia alla critica. Piuttosto si avverte oggi, rileggendo le pagine di Curtius, la responsabilità di ricostruire il commento ai testi assemblandone le componenti con uno sguardo rinnovato.
L’affermazione della «continuità» tra antichità ed età moderna, attraverso il Medio Evo, è uno degli argomenti particolarmente contraddetti dalla critica: si ricorderanno pagine perplesse di Jauss, di Wellek, di Zumthor; da una ventina d’anni, però, almeno in Italia, conosciamo molto meglio la grande attività dei volgarizzatori degli antichi testi latini (e dei traspositori in «orizzontale» dei testi letterari scritti in lingua galloromanza). Il recupero dell’antichità latina degli Umanisti è talora una reazione preziosa alla trascuratezza manieristica di certi volgarizzamenti, o alla paradigmatica attualizzazione dei costumi. Non si vede insomma, tenuto conto di questa stagione che fu tutt’altro che episodica – Plinio il Vecchio fu volgarizzato da Landino all’alba dell’età moderna, nella Firenze del Magnifico –, una vera soluzione di continuità tra le ere culturali.

Filologia e verità di fatto
Un ultimo pensiero, originato dalla mia formazione, va all’utilità di quest’opera per la filologia, intesa in senso stretto come scienza del testo nell’esperienza culturale italiana, franco-tedesca ed europea occidentale, ma anche come scienza del discorso e della parola. La filologia riunisce storia della tradizione e critica del testo, e pare male adattarsi a una concezione di testo come oggetto disaggregato e privato di un’autorialità forte – perché si privilegiano le sue componenti rispetto all’unità garantita da una persona autrice. Eppure Curtius, nella prefazione alla seconda edizione, rimarca che «per convincere i miei lettori ho dovuto impiegare la tecnica scientifica che costituisce il fondamento di ogni ricerca storica: la filologia» (ora a p. 9). Anzi, sulla celebrazione della filologia come metodo per ottenere le «verità di fatto» si conclude la breve introduzione al grande lavoro; ed è «una minuziosa analisi filologica (che) ci ha permesso di scoprire, in testi della più varia provenienza, elementi di identica struttura che sono stati interpretati, perciò, come costanti espressive della letteratura europea» (p. 321). Per la sua epoca il metodo filologico deve rinascere come Präzisionsmethode, opponendosi alla «scienza dello spirito» in voga, cioè all’idealismo applicato alla letteratura (ma anche progenitore del nazismo). Alcune osservazioni sulla scarsa funzionalità di certi dati per rimarcare lo spirito di un’epoca ormai affermato (come fece Auerbach parlando del Barocco) mi paiono perciò fuori fuoco, considerato che Curtius rifiutava di soggiacere passivamente a un presunto Zeitgeist.
Come scrive Antonelli, offrendo un condivisibile giudizio di valore sull’opera, a Curtius interessava, nell’immediato, dare un fondamento europeo agli studi letterari dei giovani studiosi; il sistema dei topoi, in cui l’opera è articolata, ha acquisito valore nel tempo, con lo sviluppo dello strutturalismo. Un tale afflato pedagogico è stato talora accolto con sussiego; nondimeno, ci appare oggi opportuno, perché sappiamo separare con maggiore nettezza la critica stilistica, il lavoro filologico e la sovrastruttura ideologica, che non nuoce ai sistemi di pensiero se il lettore possiede gli strumenti per coglierla e valutarla. E questa colossale celebrazione della pervasività della Tradizione non chiude affatto a nuovi metodi di ricerca, perché li riassorbe in un eterno ritorno del presente.