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Ingres-Delacroix, confronto di self-fashioning

Ingres-Delacroix, confronto di self-fashioningAndré-Adolphe-Eugène Disdéri, "Portrait photographique d’Ingres assis", part., ca. 1860, Montauban, musée Ingres Bourdelle

Musée Ingres Bourdelle A Montauban, Musée Ingres Bourdelle, "Ingres et Delacroix Objets d’artistes", a cura di Claire Bessède, Florence Viguier-Dutheil. Cimeli d’atelier, «memorabilia» e opere: a verifica il seducente cliché di una leggendaria antinomia estetica dell’Ottocento francese, alla base della modernità

Pubblicato 19 giorni faEdizione del 15 settembre 2024
Tommaso MozzatiMONTAUBAN (OCCITANIA)

Nel passare in rassegna gli scatti noti dell’ultimo domicilio newyorkese abitato da Joan Crawford – l’appartamento di cinque vani ai piani alti dell’Imperial House, un grattacielo sulla 69a strada, nell’Upper East Side – non ci si stupisce per l’assenza di una qualche foto con autografo di Bette Davis, appoggiata magari in bella vista sul comodino della stanza da letto all-white o lasciata sul coffee table leggero, fra i divani del salotto verde e giallo.

Più prevedibilmente, nel servizio del ’77 realizzato per il volume Celebrities Homes dell’«Architectural Digest», compaiono ritratti solenni dell’attrice, oscar per Mildred Pierce: così, fra gli arredi disegnati da Carleton Varney con un occhio al confort borghese piuttosto che al glamour hollywoodiano, svettano un busto in bronzo di Yucca Salamunich (che ne ritrae il profilo a quarant’anni, nel suo lucente splendore fotogenico) assieme a un dipinto, non meno evocativo, del fashion-designer Michaele Vollbracht, immagine pop della diva di gusto ormai warholiano.

Le interpreti, è un fatto risaputo, s’erano detestate per un’esistenza intera: e perfino il successo gotico, meta-cinematografico dell’horror Che fine ha fatto Baby Jane? non era servito a riavvicinarle, come di recente ribadito da una serie di Ryan Murphy, fin troppo cosmetica nel proposito deliberato di riscrivere in chiave queer l’archeologia degli studios.

Anche per questo è del tutto sorprendente, entrando oggi al Musée Ingres Bourdelle di Montauban, imbattersi, nella prima delle sale espositive disposte al pian terreno, in una sequela di effigi note (e meno note) di Eugène Delacroix. Una faida, non meno epica, ha separato infatti – in vita e poi in morte, attraverso una diffusissima fortuna critica – il pittore parigino dal collega cui si deve la nascita di quell’istituzione, e cioè Jean-Auguste-Dominique Ingres, che con lasciti successivi, fra il 1851 e il 1866, decise di arricchire le collezioni d’arte della sua città natale; e per far questo immaginò un’eredità disposta – monumento squisito al proprio genio – negli spazi eleganti dell’edificio un tempo sede della curia vescovile nel piccolo comune affacciato sul Tarn.

Léon Riesener, “Portrait d’Eugène Delacroix les mains levées”, 1842, Parigi, Petit Palais

Non a caso, l’efficace galleria – costruita in parallelo a una scelta di ritratti del rivale, disegnati anch’essi, o dipinti, scolpiti o catturati in fotografia – si conclude con la celeberrima caricatura, al centro pure di un’ampia divulgazione manualistica, in cui i contendenti – per un paginone di «Le Journal pour rire» del luglio 1849 – vennero affrontati, dallo spirito corrosivo di Bertall, in un furioso duello a cavallo: Ingres, armato di stilo a simbolizzare la linea classicista, Delacroix brandendo un setoso pennello a dire invece il travaglio del colore.

Tale antitesi si offre da filo rosso in quello che si presenta come un curioso, intelligente evento espositivo, concepito per affratellare i musei intestati ai pittori, fra Montauban e Parigi, lungo un percorso unitario, ricomponendo di fatto un dialogo serrato, pur fra le incomprensioni, le inimicizie e gli scontri.

La mostra, aperta sino al 10 novembre (Ingres et Delacroix Objets d’artistes, a cura di Claire Bessède, Florence Viguier-Dutheil) intende innanzitutto porre a confronto il loro accurato self-fashioning, inscenato in particolare negli spazi di lavoro che li videro, concorrenti, disputarsi la scena francese di primo Ottocento. Pur separati da una generazione (Ingres era nato nel 1780, l’altro nel ’98), sarebbero stati infatti eletti, in un giro breve di anni, a campioni di partiti estetici in severo contrasto, con esiti ed echi ravvisabili attraverso la traiettoria della modernità, sin dentro alle diatribe programmatiche di primo Novecento. Nel far questo, le curatrici – in coda a un filone di studi già avviato da Sébastien Allard e Marie-Claude Chaudonneret – hanno voluto, però, porre soprattutto a verifica un cliché tanto seducente, passando, per così dire, al vaglio della storia la coriacea consistenza di un’immagine consegnata ai posteri e da questi poi specialmente riverita.

In tal senso, il Musée Ingres e quello Delacroix sono in fondo degli osservatorii d’eccezione. Pur nella diversa genesi di ciascun luogo, si offrono entrambi come fotografie della fase estrema per le esistenze dei pittori omaggiati, custodi di collezioni costituitesi a partire dalle loro ultime volontà: conservative, quelle del padre de L’apothéose d’Homère, che avrebbe perfino previsto l’allestimento migliore per le memorabilia lasciate in dono a Montauban; dissipatorie, quelle dell’inventore de La Liberté guidant le peuple, per le quali un patrimonio cospicuo si sarebbe smembrato in doni personali, elargizioni mirate e in una ricca asta pubblica (passaggi tutti che, a posteriori, hanno comunque permesso di riunire un corposo album di ricordi, grazie alla generosità di singoli bénévoles e all’occhio dello staff museale fisso sul mercato).

In tal senso ben funziona l’antinomia dei due cavalletti, fra i cimeli di ciascun atelier, l’uno squadrato e solido, in legno e metallo, l’altro addolcito da volute a collo di cigno (agevole indovinarne i rispettivi proprietari); come è arduo non subire il fascino dissonante della foto studiata in grande formato da André Disdéri attorno a un Ingres dottorale, sul 1860, e lo scatto più giocoso di Léon Riesner, preso invece per ritrarre un Delacroix orientalista, al mignolo l’anello d’oro acquistato in Marocco nel 1832. Tuttavia, «dittici» siffatti assumono un senso screziato perché li si affianca, sulle pareti, a paragoni meno discrepanti, ad esempio quello fra i nudi accademici o i quadretti mitologici dei due maestri (in particolare una Baccante addormentata di Montauban e un’Antiope dall’Orsay, miscele consimili di frigida eloquenza): per ribadire, che dopotutto, gli stessi Ingres e Delacroix dovettero assumere, col trascorrere della carriera e il rafforzarsi delle corrispettive posizioni, il peso del loro ruolo. Sarebbero cioè arrivati, in conseguenza di precise circostanze biografiche, a sclerotizzare le distanze, interrompendo – almeno in pubblico – una conversazione che, al contrario, sino agli anni venti-trenta, era stata, se non serrata, di reciproco rispetto e di mutua curiosità (lo dice assai bene, in catalogo, Côme Fabre, conservatore nel Département des Peintures del Louvre, approfittando con arguzia delle opere in mostra e menzionando, fra l’altro, la lode riscossa dal Roger di Ingres, «charmant» nel giudizio del collega).

Il medesimo scandaglio storico-critico, volto a sottrarre a un’eternizzazione banalizzante icone riverite, è condotto, d’altronde, sui molti, dissimili materiali esposti, fra strumenti del mestiere e souvenirs poetici: démarche ereditata da una riflessione condotta, negli anni, da entrambe le istituzioni, costrette a confrontarsi con raccolte peculiari, nutrite delle reliquie di due dei padri nobili dell’arte (e del discorso critico) del XIX secolo. L’urgenza è stata cioè quella di evitare la feticizzazione di oggetti che – quasi per contatto – recano l’«impronta» di tanto smisurati numi tutelari, riconsegnandoli piuttosto alla loro natura di documenti, spesso utili, a volte indispensabili, per comprendere la parabola creativa di coloro che ne sono stati possessori orgogliosi. In quest’ottica hanno il peso di una curiosità «documentaria», nella loro presenza icastica, il violino appartenuto a Ingres (solo uno dei numerosi inventariati fra i suoi beni) o il presse-papier a forma di serpente regalato a Delacroix da George Sand: parlano, invece, liricamente, di un vero e proprio calendario creativo gli schizzi nordafricani di quest’ultimo o la tavolozza dell’altro, che parrebbe ancora conservare i colori chiarissimi di una fra le ultime opere vendute in vita, Le Bain turc, comprato nel 1866 dall’ambasciatore ottomano Khalil Bey.

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