Incoerenza Italia: no all’arbitrato nella Energy Charter Treaty, sì nel Ttip
Trattati internazionali L’Italia è tra i massimi sostenitori di un Isds, «l’arbitrato Investitore – Stato», nel Ttip, il Trattato Transatlantico tra Stati uniti e Unione europea il cui nono Round negoziale si […]
Trattati internazionali L’Italia è tra i massimi sostenitori di un Isds, «l’arbitrato Investitore – Stato», nel Ttip, il Trattato Transatlantico tra Stati uniti e Unione europea il cui nono Round negoziale si […]
L’Italia è tra i massimi sostenitori di un Isds, «l’arbitrato Investitore – Stato», nel Ttip, il Trattato Transatlantico tra Stati uniti e Unione europea il cui nono Round negoziale si è appena concluso a New York. Del resto lo stesso viceministro italiano al commercio Carlo Calenda ricordava in una recente intervista al sito Euractiv come l’Isds sia la normalità in alcuni trattati bilaterali e come «a oggi la clausola Isds è largamente usata dai paesi europei, anche l’uno contro l’altro».
E in effetti è proprio così, e pare che questa sia proprio la motivazione che ha spinto il governo Renzi a notificare l’uscita del nostro Paese dall’Energy Charter Treaty, trattato internazionale sull’energia, concluso nel 1994 ed entrato in vigore nel 1998 e che pone le basi per un mercato unico energetico per 54 membri (52 Stati, Unione Europea e Euratom).
Il motivo? Banale quanto paradossale: la presenza di un arbitrato Isds. Secondo l’articolo 26 del Trattato, infatti, un Paese firmatario può appellarsi a un arbitrato internazionale sotto l’egida dell’Icsid, dell’Uncitral o della Camera di Commercio di Stoccolma, gli stessi riferimenti internazionali a cui guardano tutte le clausole Isds, quella del Ttip compreso. Ad oggi sono 67 i casi portati davanti all’arbitrato da investitori, con un aumento negli ultimi anni dovuto alla riforma del settore energetico rinnovabile che ha visto in alcuni Paesi il taglio degli incentivi al fotovoltaico. Solo la Spagna, secondo il magazine Global Arbitration Review, ha raccolto ben 11 denunce. 7 la Repubblica ceca e una la Romania.
E l’Italia? Sembra che anche il Belpaese sia a rischio di denunce da parte di investitori come il private equity londinese Terra Firma, l’impresa Usa Silver Ridge e il fondo Antin Infrastructure Partners (per citarne alcuni) proprio a causa della revisione della propri politica di incentivo alle rinnovabili e che questa sia una delle motivazioni, reali, che hanno spinto il Governo a notificare al Segretariato l’uscita dall’Ect. Ufficialmente la scelta sarebbe dettata da motivi strettamente di budget, visto che farebbe risparmiare circa 370mila euro all’anno, almeno secondo i dati disponibili dal segretariato dell’Ect.
Ma quello che potrebbe esserci dietro potrebbe essere una vera e propria presa di posizione politica, considerato che il nostro Paese rimarrebbe vincolato alle procedure del trattato per ancora 20 anni, come spesso avviene in tutti i Trattati bilaterali di investimento. In un’intervista al Gar, Graham Coop, già consigliere generale del Segretariato dell’Ect, sottolinea come sebbene la scelta italiana non la proteggerà per i prossimi decenni, «tuttavia è una reazione politica comprensibile» come accaduto in passato, nel 2009, con l’uscita della Russia che però non le ha impedito cause miliardarie come quella con la compagnia petrolifera Yukos.
Una scelta che potrebbe accompagnarsi con l’abbandono di altri trattati bilaterali di investimento uno scenario che impone un chiarimento da parte del Viceministro Calenda, tra i maggiori sostenitori dell’Isds nel Ttip.
*Fairwatch /Campagna Stop TTIP Italia
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