Cultura

In viaggio nell’immaginario medievale

In viaggio nell’immaginario medievaleL'abbazia di San Michele della Chiusa (Piemonte), cui si ispirò Umberto Eco per «Il nome della rosa»

Scaffale I testi di André Vauchez e Adelaide Ricci ci guidano tra luoghi e esperienze del cristianesimo. La cifra politica dei santuari dell’Ovest e un’indagine sulle stimmate di san Francesco

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 14 giugno 2022

Nonostante qui in Italia l’età medievale sia stata caratterizzata da un forte rinascimento urbano, è vero che nel nostro immaginario medievalistico a prevalere sono le visioni dei castelli, dei monasteri, delle chiese cattedrali, dei grandi edifici protesi verso l’alto, magari arroccati in luoghi strategici. Tra questi non può mancare, austero e imponente, il santuario piemontese di San Michele della Chiusa: oggi campeggia sulla copertina del nuovo libro di André Vauchez, Santuaires chrétiens d’Occident. IVe-XVIe siècle (Les Éditions du Cerf, pp. 336, euro 25), celebre studioso francese che ha lavorato e pubblicato tanto anche in Italia, esperto di storia della religiosità e del cristianesimo medievali.

SAN MICHELE DELLA CHIUSA si staglia in una cornice di montagne innevate, ed è il prototipo di una architettura nella quale la simbolica ha un ruolo centrale, ma allo stesso tempo manifesta un potere politico e territoriale imprescindibile per l’epoca. La storia dei santuari (mariani e santorali) non può che essere letta in questa polarità, nella quale ognuno degli elementi rinvia all’altro. Il libro di Vauchez restituisce dunque la storia dei santuari cristiani d’Occidente a una dimensione anche politica che si palesa bene nel corso del libro, nel discorso intorno alle reliquie, cercate, vendute, acquistate sino ai furta sacra che costellano le identità civiche medievali; in quello sul monachesimo, a lungo fulcro dell’economia almeno altomedievale; in quello dei santuari mariani; nelle riproposizioni del Santo Sepolcro in Occidente; nel modo in cui le reti di santuari danno vita a cammini importanti per la nascita di centri demici e per la mobilità medievale: del più celebre, il camino che conduce a Santiago di Compostela, si parla più volte nel testo.

Di Santuaires chrétiens d’Occident si auspica la traduzione in italiano, poiché è un libro che può attrarre a più livelli; certamente come testo di storia medievale e di storia del cristianesimo, ma anche, direi, quasi come guida di approfondimento per quanti vogliano stilare un percorso e magari visitare alcuni di questi luoghi europei, che restano peraltro fra i più mirabili.

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NELLA RELIGIOSITÀ MEDIEVALE (e non solo medievale) l’esperienza francescana ha giocato un ruolo difficile da sottovalutare; anche sotto il profilo architettonico, al di là di alcuni luoghi legati alla memoria di Francesco, come La Verna, che restano lontani dai centri urbani, la caratteristica loro precipua sta nell’aver creato spazi di sacralità costituiti da chiese, conventi, piazze per predicare al popolo, non più, come i monasteri, inseriti in contesti suggestivi ma rurali o montani, ma inglobati invece all’interno delle città che proprio nel corso del Duecento conoscevano la loro massima espansione.

È così che uno dei momenti più controversi dell’agiografia del santo, la stigmatizzazione nel 1224, proprio sul monte della Verna, in un luogo cioè eremitico, è diventata nel tempo uno degli episodi centrali nell’iconografia delle grandi chiese conventuali urbane. Per la cappella Bardi in Santa Croce a Firenze, Giotto affrescò alcune fra le storie di san Francesco, tratte dalla vita ufficiale scritta da Bonaventura; la scelta degli episodi si appunta su momenti della vita e della morte del santo: dalla scelta iniziale di povertà, con Francesco che si spoglia delle vesti dinanzi al vescovo di Assisi e al padre Bernardone, all’approvazione della regola; dalla prova del fuoco dinanzi al sultano alla morte, con Francesco disteso nella bara e l’incredulo Gerolamo che ricerca i segni del miracolo; l’episodio centrale della vita di Francesco, le stimmate, è all’esterno della cappella, in alto, affinché fosse maggiormente visibile. Sulle stimmate molto si è discusso: non si può oggi prescindere dagli studi in materia di Chiara Frugoni, recentemente scomparsa.

TUTTAVIA, CI PUÒ ESSERE un’altra strada da seguire, al di là della pur necessaria ricostruzione filologica di una tradizione: cercare di comprendere l’idea di visione, la semantica del miracolo, la percezione che della narrazione di un evento così straordinario ebbero i coevi. Ci prova Adelaide Ricci con Apparuit effigies. Dentro il racconto delle stigmate (Unicopli, pp. 381, euro 21). Nella prefazione, è proprio André Vauchez a sottolineare l’originalità della lettura di Ricci e la necessità, per apprezzarla, di spogliarci delle consuetudini esegetiche per noi più consuete. Non è un compito facile quello di immergersi nella cultura e nella «mentalità» (come si sarebbe detto un tempo) di quei secoli, in un certo senso di rinunciare a decodificarla dall’esterno. È tuttavia un approccio che, nell’epoca storiografica che prende in considerazione come oggetti di studio emozioni e sentimenti, non è più impensabile.

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