Mentre il presidente Mattarella va in montagna con Piero Calamandrei ricordando il significato del 25 aprile, la presidente del consiglio sciorina al Corriere della Sera un fiume di parole quando ne bastava una. Difficilmente i due Palazzi romani hanno mostrato la diversità, svelato la distanza, interpretato il contrasto tra una cultura che affonda le radici nell’antifascismo e perciò nella Costituzione, e una ideologia liberticida che galleggia sui luoghi comuni del neo-post-fascismo.

Questo anniversario della Liberazione è stato forse il più antifascista di sempre, perché ha moltiplicato la presenza di donne, anziani, ragazzi nelle piazze, da Milano a Roma (come abbiamo documentato con la diretta-tv sul manifesto.it), rinnovando l’impegno alla resistenza antifascista e antirazzista. Dopo sei mesi di messa alla prova del governo più a destra della storia dal ’45 a oggi, sappiamo che sono sotto attacco i diritti individuali e collettivi, civili e sociali da parte di forze e personaggi che, per convinzione, sono estranei ai valori della Resistenza.

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Per il partito di maggioranza il 25 aprile è ancora vissuto come il giorno della sconfitta, comunque camuffata, preferibilmente usando il metro fasullo, come è tornata a dire la premier sul Corriere, dell’equiparazione tra chi resisteva al nazifascismo e chi combatteva con e per Mussolini e Hitler, con e per i protagonisti di Salò, efferata espressione di atrocità.

Un volgare, falso, irricevibile paragone, per tante ragioni che possiamo facilmente riassumere con le parole di Italo Calvino: dietro al peggiore partigiano c’erano comunque la democrazia e la libertà, dietro al migliore repubblichino c’erano il lager e la dittatura. O con quelle con cui Vittorio Foa si rivolse al missino Giorgio Pisanò: «Se aveste vinto voi io sarei ancora in prigione; abbiamo vinto noi e tu sei senatore».

Quando Meloni scrive che i partiti che rappresentano la destra hanno dichiarato la loro «incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo», portando queste forze nell’alveo della democrazia, senza mai pronunciare l’aggettivo antifascista, non fa altro che replicare il motto del padre politico, Almirante, quel «né restaurare, né rinnegare» che gli consentì di guidare un partito votato in parlamento – il Msi – e di partecipare a due elezioni del Quirinale, senza mai per questo rinnegare i valori della sua famiglia politica. E chi lo fece, come Fini, oggetto ancora oggi degli strali dei suoi ex colonnelli, alla fine subì la nascita dei Fratelli d’Italia di Meloni e La Russa, saliti al governo del Paese. Spesso ci domandiamo come è stato possibile che i fascisti siano tornati, oltretutto in posizione di comando. Forse la risposta alla fine è semplice: perché non se ne sono mai andati.

Ma le chiacchiere stanno a zero di fronte alla partecipazione, forte, festosa, pacifica alle tante manifestazioni di ieri, che hanno contrassegnato una presenza popolare molto sentita, e senza ambiguità: il 25 aprile è per sempre. Ed è il marchio d’origine della nostra vera, profonda, radicata identità nazionale.