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In missione per «salvare» il grande schermo

In missione per «salvare» il grande schermoScena da «Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte uno»

Al cinema Tom Cruise mette a rischio l’incolumità per lo spettacolare ottavo capitolo del franchise «Mission Impossible». La trama è quasi un pretesto per l’azione, che evita il più possibile gli effetti digitali

Pubblicato circa un anno faEdizione del 20 luglio 2023

Tom Cruise (classe 1962) torna ad interporre il proprio corpo di immarcescibile sessantenne palestrato alla profetizzata «morte del grande cinema» col settimo film della premiata franchise Mission Impossible. Un anno dopo il reboot di Top Gun (cui Stephen Spielberg attribuì nientemeno che la rinascita della sale post-pandemia ed il salvataggio di Hollywood) Cruise riprende gli abiti di Ethan Hunt, insostituibile protagonista della serie che dopo otto film ha incassato qualcosa come 3 miliardi di dollari.

BASATI originalmente sull’omonima serie televisiva degli anni 60, i film prodotti a partire dal 1996, si collocano a metà strada fra le altre note serie spy, senza il kitsch nostalgico dei James Bond, né l’esistenzialismo un po’ malinconico di Jason Bourne. La formula è prevedibile quanto affidabili i personaggi. Innanzitutto lui, Ethan Hunt, spia senza nome ed allergico all’autorità, in preda a dubbi sempre più profondi sul suo ruolo di anonimo strumento di un potere sempre più amorale.
In un mondo di tripli, quadrupli e quintupli giochi, gli unici rapporti affidabili sono quelli con la sua famiglia surrogata della Imf (Impossible Missions Force), Hunter (Ving Rhames) e Benji (Simon Pegg) e le donne (agenti ed antagoniste) che gli ruotano attorno.

A differenza di 007, che solo di recente ha implementato riforme di pari opportunità, le presenze femminili sono sempre state parte integrante di Mission Impossible, da Michele Monaghan ad Angela Bassett e Vanessa Kirby. In questo Dead Reckoning il cast guadagna una perfida Pom Klementieff ed una ottima Haley Atwell.
Il tutto è tenuto assieme da un sottile pretesto di trama dagli elementi altrettanto rodati: il messaggio auto combustibile iniziale che mette in moto la missione, un’entità antagonista con disegni di potere assoluto tramite il terrorismo globale, un obbiettivo che Hunt ed i suoi devono conseguire tramite sovrumane prove – in questo caso una doppia chiave, unico strumento in grado di disattivare la forza malevola che minaccia l’umanità.

Non si può dire che la sceneggiatura di Erik Jendresesn e Christopher McQuarrie (regista che ha rilevato la franchise dal quinto film, dopo Brian DePalma, John Woo, JJ Abrams e Brad Bird) non sia sul pezzo, dato che l’avversario di questa storia è un intelligenza artificiale in grado di sorveglianza digitale assoluta. Il copione abbozza problematiche assai attuali con ambizioni epistemologiche di era fake («Potrebbe essere la fine della verità condivisa come l’abbiamo conosciuta!»). Ma dialoghi e trama sono davvero secondari al piatto forte, anzi le successive portate di azione mozzafiato.

 

Archiviato il prologo, che somiglia molto all’introduzione espositiva di un video gioco, si parte infatti per l’esotica odissea che porrà sul tragitto dell’eroe una serie di prove apparentemente insormontabili, la cui primaria funzione è strabiliare lo spettatore più della precedente puntata. A partire da una sequenza ammiccante a Lawrence d’Arabia Hunt/Cruise si prodiga dunque in una serie di inseguimenti al cardiopalma e combattimenti meticolosamente coreografati. Mission Impossible esiste ormai in una brevettata dimensione di cinema «acrobatico» di cui è incontestato campione. Parte integrante del brand è l’azione rigorosamente analogica, evitando per quanto possibile gli effetti digitali, con una star che notoriamente esegue personalmente i propri stunt.

È FORSE dai tempi di Buster Keaton che un attore non mette così regolarmente a repentaglio la propria incolumità fisica per regalare emozione e divertimento. Questo film non è un’eccezione, e uno dei momenti clou è quello abbondantemente spoilerato dai trailer, del vero salto nel vuoto di Cruise da una rupe alpina – in realtà una montagna norvegese. «Funziona» per una sorta di garanzia di autenticità atletica – il tacito patto di pericolosità che ha visto in passato Ethan Hunt scalare il grattacielo del Burj Khalifa, o, sempre a mani nude, attaccarsi alla carlinga di un Airbus in volo.
Bisogna riconoscere che l’azione non è solo strabiliante ma effettivamente originale, a partire dai i combattimenti unisex ispirati al wushu cinese (ed al Pencak Silat dei Raid di Gareth Evans) fino all’utilizzo delle location. In questo film vi è una preponderanza di panorami italiani, specificamente Venezia e Roma, quest’ultima in particolare usata al meglio in sequenze che abbinano all’azione elementi di commedia, grazie anche a Haley Atwell che tiene testa più che bene alle prodezze di Cruise. Senza troppo rivelare, basti dire che quello che combinano Tom & company sui gradini di Trinità dei Monti non è esattamente turismo sostenibile.
Certo assieme all’Indiana Jones dell’ottuagenario Harrison Ford e il film di vendetta di prossima uscita con Liam Neeson e Denzel Washington, ci si domanda se a Hollywood non imperi una sorta di gerontocrazia dell’azione. Intanto però, anche se forse non basterà da sola a «salvare Hollywood», Mission Impossible rimane uno degli argomenti migliori a favore del cinema visto sul grande schermo.

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