Su una Croisette determinata a promuovere il mantra del «business as usual», Tom Cruise è una benedizione e una garanzia. All’incontro pubblico tenutosi alla Debussy-una conversazione moderata dal giornalista Didier Allouche- Cruise arriva in elicottero, smagliante, quasi più bello di trentasei anni fa, come si confà a una vera star. Qui a Cannes, per la proiezione di Top Gun: Maverick, la sua è una toccata e fuga, prima di andare a Londra per una prima di fronte alla regina. Il suo fulgore inossidabile proietta un senso di salute e di fiducia di cui l’industria del cinema (americano e non) ha disperato bisogno – dopo l’accoglienza entusiastica a CinemaCon, il destino dell’estate sul grande schermo sembra appeso a questo film. Alla mattina, quando vai a ritirare il biglietto, gli uffici della Paramount all’hotel Martinez appaiono in preda all’euforia. Come sempre Tom Cruise, salutato da un’ovazione a cui è seguito un lungo montage di clip dalla sua carriera, delivers – anche quando le missioni sono quasi impossibili, come quella di sopra.

E LO FA con quell’umiltà studiata, e plasmata dalla disciplina dello studio system, che avevano i grandi della vecchia Hollywood. «Fino da quando avevo quattro anni volevo volare su un areo, buttarmi giù dagli alberi. Scrivevo storie. Facevo dei lavoretti e con i soldi che guadagnavo andavo al cinema. Mi sono trovato su un set a diciotto anni, non sono mai andato a scuola di cinema. Sul set osservavo il lavoro di tutti. Ho imparato cosa faceva il direttore della fotografia. Mi sono formato così, grazie a persone che hanno condiviso con me la loro arte. Non ho mai avuto paura di non sapere – volevo viaggiare, incontrare le persone che vedevo sullo schermo.
E, visto che amo film diversi, volevo capire perché mi toccavano. Sono cresciuto con i film di Chaplin e Buster Keaton, ho studiato i loro esordi», ha raccontato l’attore. E il riferimento ai due giganti del muto non è casuale. Cruise è una star fisica, analogica – il contrario del digitale. «Chiedereste a Gene Kelly perché balla?» risponde quando gli si chiede perché (alla soglia dei sessant’anni) si ostina a limitare al minimo l’uso della controfigura. «Mission: Impossible è stato il primo film che ho prodotto. Quando ho incontrato la Paramount per adattare la serie, ho detto loro che volevo espandere i confini del film d’azione. Ho sempre voluto buttarmi con il paracadute, pilotare un aereo o un elicottero – se ci aggiungi una macchina da presa puoi ricreare un’esperienza unica. Ricordo che da piccolo mi sono buttato giù dal tetto di casa con una tenda come paracadute. La faccia è arrivata a terra prima dei piedi. Ero terrorizzato che mia madre si arrabbiasse per le tenda».

IN STILE ANALOGICO anche la sua risposta sulle piattaforme: «Capisco le necessità del business. Ma quando i film sono fatti per il grande schermo – con quel suono e quell’immagini – è un’esperienza unica. Anche scrivere per il cinema è diverso dallo scrivere per la televisione. Il cinema è la mia passione. Vado spesso al cinema -con un berretto per essere in incognito. Mi piacciono i prossimamente, parlare con gli usceri». Ricordando Eyes Wide Shut, ha detto che gli ci è voluto molto per trovare il personaggio: «Parlavamo molto con Kubrick. È stato un film parecchio destabilizzante. Alla fine, con Nic (Nicole Kidman, ndr) e Stanley abbiamo trovato il tono giusto -bisognava fare il modo che il pubblico non si risentisse dell’artificiosità del film».