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In cattedra diplomati e laureandi ma con quale formazione?

Scuola La ministra della Scuola e dell’Istruzione proclama che i laureandi verranno immessi come docenti nelle scuole e la sua dichiarazione di carattere emergenziale riecheggia l’arruolamento da tempi di guerra. A […]

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 22 luglio 2020

La ministra della Scuola e dell’Istruzione proclama che i laureandi verranno immessi come docenti nelle scuole e la sua dichiarazione di carattere emergenziale riecheggia l’arruolamento da tempi di guerra. A dire il vero, destano non poche perplessità la tempistica e le modalità di comunicazione. La scelta viene pronunciata in tv e inevitabile ne segue un’onda di opinioni, ma anche preoccupazioni, apprensioni, ansie per una scuola dal futuro prossimo incerto e nebbioso.

Forse sarebbe meglio esporre tali questioni in apposite conferenze stampa, in modo tale da non creare tale clima di disorientamento.

Tuttavia, attenendoci alle parole della Ministra, si paventa che in cattedra ci andranno “prima i laureati in scienze della formazione primaria, poi i diplomati magistrale e poi ancora i laureandi in scienze della formazione primaria”.
Il putiferio mediatico si è scatenato proprio per queste due ultime categorie: diplomati e laureandi.

Che senso ha, si chiedono coloro che hanno fatto lunghissime trafile abilitanti, dedicare tanti anni della propria vita per conseguire titoli post-laurea il cui valore viene equiparato a quello di un diploma? Specifica la Ministra: “Ci sono tanti giovani preparati che hanno fatto un test per entrare nel corso di laurea e hanno già scelto a 18 anni di fare gli insegnanti e hanno anche svolto il tirocinio”.

Non ci sono dubbi, ma il test di accesso a un corso di laurea non corrisponde ad un percorso abilitante.
Bisogna certamente dare spazio ai giovani, anche ai giovanissimi. Ma come li formiamo? È vero che in Italia si fa molta fatica a dare fiducia ai giovani e che in molti Paesi l’accesso all’insegnamento si consegue in tempi più rapidi.

La ragione risiede nel fatto che gli appositi percorsi di formazione sono integrati e non successivi al corso di laurea, per cui è più facile avere insegnanti di ruolo giovani, adeguatamente formati e preparati. Nel nostro Paese, i tempi oltremodo lunghi di accesso all’insegnamento, sono stati scanditi negli ultimi anni da sigle come Siss, Tfa, Fit, Psa, 24cfu. Acronimi di percorsi abilitanti per lo più post-laurea che, nella stessa fonetica, denotano non poca confusione. Sembra davvero che si faccia difficoltà a pronunciare la semplice espressione ‘formazione dei docenti’ a cui aggiungerei ‘permanente, parte integrante della pratica riflessiva di insegnamento-apprendimento.

In effetti, la contraddizione – anzi il paradosso – è che ai docenti di scuola non viene richiesto di fare ricerca, come accade invece per quelli universitari. Disgiungere l’insegnamento dalla ricerca vuol dire separare la pratica educativa dalla riflessione critica e dai suoi potenziali sviluppi, riducendo il tutto a una fredda trasmissione di conoscenze o strategie didattiche. Non c’è dialettica, non c’è sperimentazione, non c’è relazione.

Si rischia, eccezion fatta per intraprendenti coraggiosi, di trasformare la pratica educativa in una ritualità burocratica. La formazione docenti, così congeniata, diventa fine a se stessa perché prepara per un modello di scuola molto lontano da quello reale visto che raramente nasce dalle contraddizioni che emergono dalla scuola stessa.

La paura del precariato e la separazione teoria-pratica dominano in un sistema di formazione indispensabile per le apposite certificazioni, ma spesso considerato poco efficace dal punto di vista culturale. Non ci sorprendiamo, allora, se università telematiche si sono appropriate della formazione docenti prevedendo veri e propri pacchetti con offerte speciali da ‘prendi 3 paghi 2’, correlati da sconti e offerte imperdibili.

È solo una delle conseguenze di una formazione (s)venduta al supermarket della quantificazione, mercificazione, spendibilità. Se il percorso di formazione sarà ridisegnato in senso critico e aperto alla ricerca permanente, allora potremmo trovare davvero giovani docenti adeguatamente preparati, motivati, disponibili al dialogo, ad una pratica che possa essere continuamente rielaborata.
Premessa indispensabile è che la formazione venga considerata come bene pubblico e si liberi dalla percezione di prodotto di mercato da mettere in vetrina per poi essere venduto al migliore offerente.

L’autore è docente di pedagogia all’università di Napoli «Federico II»

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