Il volto di Irma Bandiera contro la guerra
Divano La rubrica a cura di Alberto Olivetti
Divano La rubrica a cura di Alberto Olivetti
Trascrivo per intero dal numero di «Noi Donne» del 15 marzo del 1946 una toccante pagina di Laura Lombardo Radice: «Mi hanno fatto vedere il vestito di Irma Bandiera ragazza partigiana; quello di quando i tedeschi l’hanno fucilata l’estate del ’44. Un abitino di cotonina rosso a pallini bianchi, abbottonato davanti, fino in fondo alla gonna. Fa pensare alle gite domenicali al mare, di giugno: ci si mette il costume sotto, si riempie in fretta una borsa: l’asciugamano, il pettine, lo specchio, uno sfilatino; e sin dal mattino, nel tram di città pieno zeppo, le dita corrono ansiose al primo bottone, già presentono l’ora che il vestitino resterà, come un sigillo di ceralacca scarlatta, sulla pagina distesa della spiaggia bianca di sole.
Anche fa pensare alle scampagnate in bicicletta: la ragazza pedala svelta e i pallini bianchi le ballano e rimbalzano sulle spalle, come minuscole biglie sempre lì lì per ruzzolare via tutte e lasciar solo quello squillante colore d’estate.
Ora, ci sono i grumi nerastri, striature di bruciato al petto, sui fianchi, perché Irma a vent’anni l’hanno ammazzata che portava quel vestitino rosso, il 13 agosto 1944. Atroce pensare a qualcuno, uomini, che abbia preso la mira, puntato, sparato addosso a quella vestaglietta da bambina. Pensate, la morte vestita di cotonina rossa, a pallini bianchi…
Atroce, atroce. Questa parola mi martella il cervello. La più atroce delle tante immagini atroci, raccapriccianti, fotografie, documenti, racconti, di un’età atroce e incredibile che abbiamo pure vissuto.
Se chiudo gli occhi vedo, da un immenso esercito di morti grigi, colore di terra, venire verso di me la ragazza sconosciuta, col suo vestitino rosso a pallini bianchi».
Irma Bandiera, col nome di battaglia Mimma, è staffetta partigiana nella Settima Brigata Gap di Bologna. Il 7 agosto del 1944, prende parte ad un conflitto a fuoco contro le SS e una pattuglia di soldati della Repubblica Sociale. Conclusosi lo scontro, Mimma ricovera le armi impiegate quel giorno dal suo gruppo partigiano in un deposito sicuro a Casalmaggiore. Al ritorno, mentre si reca a casa, viene catturata dai fascisti della Compagnia autonoma speciale. Interrogata, non rivela i nomi dei suoi compagni. Viene allora seviziata e torturata per sette giorni e sette notti, ma non parla. Il corpo orribilmente straziato, Irma è portata dagli aguzzini davanti alla casa dove i genitori da una settimana l’attendono invano. Che parli. Che dica i nomi e avrà la vita. Irma tace. La torturano ancora e la accecano. La finiscono mitragliandola alla collina di San Luca. Il corpo di Irma, nel lacerato vestitino rosso, per un giorno intero viene esposto a monito, sorvegliato dai militi fascisti che l’hanno seviziata e uccisa, e lasciato riverso sul selciato della strada.
Di Irma osservo una fotografia. Vi è ritratta di profilo. Sotto una luce intensa la linea della fronte e del naso si staglia su un fondo scuro. Pare animarsi quando descrive le labbra della bocca socchiusa e la rotondità del mento per poi, di nuovo, adagiarsi nel descrivere il collo. È un profilo di donna che ricorda la perfezione di certi ritratti muliebri del Rinascimento, questo delicato di Irma che giace su un panno bianco, a farle da improvvisato cuscino. Il sopracciglio sottile, arcuato appena; le narici delicate, il lobo dell’orecchio conservano i tratti della bellezza di Irma. La guancia e la tempia mostrano i fori di due dei proiettili che l’hanno uccisa. Ma, pur con quei due segni crudeli, tempia e guancia appaiono intatte. Solo forse i capelli, come raggrumati, denunciano nel loro scompiglio le innominabili violenze subite dalla giovane donna prima d’essere fucilata.
Oggi, passati ottant’anni dalla uccisione di Irma si vive nella guerra. Ancora atroce e ancora. Giorno dopo giorno si numerano migliaia e migliaia di uccisi. Se ne aggiorna la somma che non cessa di crescere. Ma i loro volti, uno per uno, come il viso di Irma morta, si dovrebbero mostrare, diffondere nel mondo, perché un moto inarrestabile di repulsa della guerra fermi chi la guerra fa e chi le guerre giustifica.
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