Il viaggio degli schiavi nel sottosuolo della coscienza
Scrittori statunitensi Costruito come una postmoderna «neoslave narrative», l’ultimo romanzo dello scrittore americano rivisita in chiave romanzesca il genere, non più per sostenere la causa abolizionista ma per interrogarsi su come ricordare quella pagina tragica della storia americana
Scrittori statunitensi Costruito come una postmoderna «neoslave narrative», l’ultimo romanzo dello scrittore americano rivisita in chiave romanzesca il genere, non più per sostenere la causa abolizionista ma per interrogarsi su come ricordare quella pagina tragica della storia americana
Underground railway, «ferrovia sotterranea», era il nome dato alla rete di percorsi segreti e rifugi grazie alla quale, tra l’inizio dell’Ottocento e la Guerra Civile, più di centomila neri riuscirono a fuggire dal sud degli Stati Uniti per riparare nei territori del nord, dove la schiavitù era stata abolita. È questa realtà storica a fare non solo da sfondo ma da struttura portante all’ultimo romanzo di Colson Whitehead, La ferrovia sotterranea (traduzione impeccabile di Martina Testa, Bigsur, pp. 376, € 20,00) di cui è protagonista Cora, una donna abbandonata da bambina nella piantagione dei fratelli Randall dalla madre Mabel, la sola mai riuscita a fuggire da quell’inferno di umiliazioni, stupri, violenza creato dai padroni bianchi, che infettò come un virus gli stessi oppressi, seguendo quella logica che i sopravvissuti ai lager nazisti e i gulag staliniani hanno più volte sviscerato, e che Whitehead riecheggia consapevolmente.
La ferrovia non è una metafora
Narrato in terza persona, ma dal punto di vista di Cora che con la sua determinazione a fuggire garantisce un centro di gravità al romanzo, La ferrovia sotterranea è costruito come una neoslave narrative postmoderna,che rivisita in chiave romanzesca il genere, non più per sostenere la causa abolizionista – come accadeva nelle grandi autobiografie di Frederick Douglass e Harriet Jacobs – ma per interrogarsi su come oggi quella pagina tragica e immensamente dolorosa possa e debba essere ricordata, in un paese in cui il razzismo è ancora pericolosamente presente.
Il romanzo di Whitehead, che ha vinto sia il Pulitzer che il National Book Award è certamente importante dal punto di vista politico e culturale, ma oltre a essere, come in molti hanno scritto, un libro «necessario», è anche quasi perfettamente riuscito, perché l’autore sa accelerare e rallentare la storia con mano sicura, aprendo finestre sul passato o sul futuro senza mai perdere il ritmo del racconto.
Lo sguardo onniscente gli permette inoltre di tracciare ritratti convincenti anche di quelli che si configurano come gli spietati villain della storia, a cominciare dal cacciatore di schiavi Ridgeway che, con la sua banda di loschi figuri, rimanda in modo esplicito ai cacciatori d’indiani del Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, di cui non condivide – tuttavia – i toni epici e il periodare faulkneriano. La lingua di Whitehead è sobria e si sforza di aderire al tempo storico della narrazione, con un realismo che resta tale anche quando il contesto si fa «magico».
L’invenzione più notevole del romanzo sta in quel tocco di irrealtà che discende da un’idea semplice ma indubbiamente originale: la ferrovia, nel romanzo, non è una metafora. Dalla Georgia sino all’Indiana, e oltre, qualcuno ha scavato nel sottosuolo una rete di gallerie, deposto binari e trasportato locomotive e vagoni che fanno la spola tra stazioni vere e proprie, per aiutare i fuggiaschi a sottrarsi al giogo della schiavitù. A quale funzione assolve questa alterazione del dato storico? Sul piano della causalità narrativa Whitehead ne avrebbe potuto fare a meno: sono mille altri, infatti, i modi in cui Cora sarebbe potuta fuggire e alcuni di questi li tenta. La funzionalità dell’invenzione di Whitehead non sta dunque sul piano narrativo, ma su quello discorsivo e simbolico. Letteralizzando la metafora della ferrovia sotterranea, Whitehead non fa che crearne una nuova, il cui fine è proprio quello di costringere il lettore a interrogarsi sul suo senso.
A me sembra che collocando la rete clandestina di abolizionisti nelle viscere del territorio americano, il romanzo voglia sottolineare la sostanziale estraneità di questo manipolo di coraggiosi sovversivi non soltanto all’America dell’epoca, dove anche al Nord gli abolizionisti subivano intimidazioni, pestaggi, ritorsioni, ma anche nei confronti degli odierni Stati Uniti, incapaci di riconoscersi in quello che di più nobile hanno prodotto. Mettendo in scena una vera ferrovia sotterranea Whitehead rende concretamente percepibile quel processo di repressione della memoria che ha caratterizzato la costruzione della coscienza nazionale del paese.
Verso l’uscita dal tunnel
Quando Cora e un altro fuggiasco salgono per la prima volta su un treno sotterraneo, il «capostazione» Lumbly dice loro: «Se volete vedere com’è fatto davvero questo paese, dovete prendere il treno. Mentre andate a tutta velocità guardate fuori, e vedrete il vero volto dell’America». Verso la fine del romanzo, dopo aver viaggiato come Gulliver tra mondi strani e crudeli senza mai trovare una casa, la protagonista ripensando a quelle parole commenterà: «Era tutto uno scherzo … fin dall’inizio. Nei suoi viaggi, fuori dal finestrino, c’era solo il buio, e solo quello ci sarebbe sempre stato».
Qui il sottosuolo si fa metafora di quell’oscurità senza futuro in cui milioni di afro-americani vissero (e molti ancora oggi vivono). Ma Cora, a dispetto delle sue amare parole, non si rassegnerà. Continuerà a camminare sino a quando «un buchino minuscolo nel buio» le indicherà l’uscita dal tunnel.
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