Il tragico e il meta-tragico nel teatro di Martone
Tra il 5 e il 14 Maggio è andato in scena al teatro San Ferdinando di Napoli, con la regia di Mario Martone, «Stanza con compositore, donne, strumenti musicali e ragazzo» una pièce teatrale di Fabrizia Ramondino. La pièce narra la relazione di un compositore con la madre, la moglie, la figlia (in scena con il suo ragazzo) e il factotum di famiglia che diventato usuraio lo spoglia progressivamente dei suoi beni.
Il testo è un po’ discontinuo a volte sfiora un approccio “intellettuale”, rischiando di brillare senza incidere, anche perché non sembra essere compiuto. Non sempre riesce a bilanciare l’elemento ironico con quello perturbante. Tuttavia la regia di Martone riesce a sopperire alle difficoltà testuali e valorizzare in pieno un’opera che, intensa e profonda nell’insieme, pone questioni angoscianti certo, di cui si vorrebbe fare a meno, ma ineludibili: più le mettiamo da parte, più ci precipitiamo dentro.
La stanza che Martone costruisce -un pianoforte, divani, poltrone, un quadro, una porta che si apre su un cesso, un quadro su una parete, un grande lampadario – è un luogo spoglio di vita chiuso in se stesso e, al tempo stesso, un luogo di passaggio. L’armonia spaziale degli elementi che la compongono, incluse le figure umane che lo abitano, accresce la percezione della loro solitudine, la loro impossibilità di comunicare tra di loro. Il tempo nella stanza è fermo, il tempo esterno, rappresentato dall’usuraio che va e viene, scorre inutilmente trascinando via le cose con sé.
La scena teatrale si apre con il protagonista compositore mostrato al pubblico su un letto (una culla in cui continua a vivere) con il sipario ancora chiuso alle sue spalle. Egli nasce esposto agli spettatori, al mondo, da un rigonfiamento, “pancia” della tenda. “Esposito”, figlio di nessuno, senza padre. Preda -all’interno della scena in cui vive recluso, una volta che il sipario sulla sua vita si apre- del sogno di potenza con cui la madre ha determinato il suo destino, avvolgendolo. Aspira a una musica che scende verso la terra, invece di elevarsi al cielo, ma la spinta materna che lo occupa dentro, spingendolo verso la sfida con Dio (sostitutiva del conflitto con il padre assente), lo porta a perdersi.
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«La Merda» per incarnare un mondo nuovoAl posto di un padre in grado di reggere la sfida del figlio si vede l’usuraio che lucra sulla decadenza della coppia coniugale e degli scambi erotici, sulla crisi di un mondo che da troppo tempo si nutre del proprio cadavere. La regia di Martone esalta la contemporaneità del testo della Ramondino, la sua dimensione meta-tragica: la pretesa di vivere senza lo “sguardo di Dio”, un traguardo che, impossibile da raggiungere, ci trascende, arginando la nostra onnipotenza, ma, nondimeno, ci porta a trascenderci, a andare oltre la nostra impotenza, oltre la condizione di esseri mortali, effimeri.
La «stanza del compositore» mette in scena l’identificazione con la morte che l’eclissi della scena tragica produce in noi: la miseria della concretezza dell’azione, del risultato performante chiuso nella sua autoreferenzialità. Lo spazio tragico trasforma la sfida a Dio (il voler essere tutto, il voler essere nulla) nel conflitto con l’altro che si risolve solo sul piano di una visione superiore che lo trascende.
Questa visione non sale in alto per precipitare nel nulla, eccede lateralmente i confini del dramma, coinvolge nel destino di ogni singola esistenza l’intera comunità, rimette dentro di noi in gioco (nello spazio e nel tempo) la dimensione onirica, sperimentale, potenziale degli scambi con gli altri che ci porta oltre la nostra incompiuta esistenza personale.
Martone riporta nello spazio tragico l’essere umano deragliato, sul punto di precipitare nell’abisso meta-tragico. Rimette potentemente al centro della Polis il “teatro” il luogo in cui i cittadini rivivono i loro drammi e incubi e ritrovano i loro sogni.
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