Visioni

Il suono come emozione. Il sax dolente di James Brandon Lewis

foto James Brandon LewisJames Brandon Lewis

Note sparse Si intitola "Eye of I" il progetto del musicista americano con il suo nuovo trio insieme al violoncello di Chris Hoffman e alla batteria di Max Jaffe

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 marzo 2023

Fin dai suoi esordi il sassofonista James Brandon Lewis aveva dimostrato una qualità che lo distingueva dai colleghi. Nato a Buffalo quarant’anni fa il musicista si muoveva con disinvoltura all’interno delle diverse declinazioni della Black Music: hip hop, jazz, rock, folk. Ma questa è una cifra che accomuna molti dei suoi coetanei e nemmeno il suo interesse per l’avanguardia storica ne costituiva la maggiore originalità.

Quello che colpiva era il mettere al centro di tutto il suono. Un suono, il suo, pieno, ricco, sontuoso. Il suono come matrice del discorso, come luogo dell’emozione, come centro irradiante di senso.

Lewis ha suonato spesso in Italia e chi ha avuto modo di ascoltarlo non può essere rimasto indifferente alla energia trionfante delle sue performance.

Il suo recente disco Eye of I (Anti-Records) lo vede all’opera con il suo nuovo trio insieme al violoncello di Chris Hoffman e alla batteria di Max Jaffe

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Dopo un breve aforisma di una manciata di secondi, ne infila altri due nel disco, il nostro piazza il primo colpo; ed è un gancio che mette ko. Someday We’ll all be Free è una canzone incisa da Donny Hathaway, eccelso e sfortunato cantante degli Anni Settanta, con un testo di lotta e di speranza che potrebbe essere una colonna sonora ideale delle mobilitazioni contro il razzismo.

DOPO L’IMPEGNATO Jesup Wagon con il Red Lily Quintet, nel quale aveva dato prova di una notevole capacità di scrittura, organizzazione musicale e lucidità politica in questo disco ritorna alla dimensione del power trio di No Filter ma con altrimusicisti.

Dopo un breve aforisma di una manciata di secondi, ne infila altri due nel disco, il nostro piazza il primo colpo; ed è un gancio che mette ko. Someday We’ll all be Free è una canzone incisa da Donny Hathaway, eccelso e sfortunato cantante degli Anni Settanta, con un testo di lotta e di speranza che potrebbe essere una colonna sonora ideale delle mobilitazioni contro il razzismo.

Qui ne abbiamo una versione trasfigurata di lacerante bellezza dolente grazie all’apporto della cornetta di Kirk Knuffke e al violoncello di Hoffman archettato ed effettato con pedale che ha un ruolo di primo piano anche nell’innodico Eye of I dove il tenore di Lewis sembra non avere limiti.

Dopo Whitin you are Answers, dalla linea melodica accattivante, c’è il tempo di omaggiare Cecil Taylor con Womb Water per arrivare alla danzante Send Seraphic Beings e alla solennità collettiva di Even The Sparrow.

Nel conclusivo Fear Not Lewis convoca il trio jazz-core The Messthetics, Anthony Pirog, Joe Lally e Brendan Canty, per otto minuti di adrenalina pura, con la chitarra di Pirog che ricorda le cavalcate acide del miglior Neil Young, il leader che soffia come un demonio e una ritmica dalla potenza implacabile.

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