Teneva moltissimo alle sue idee. Ai principi in cui credeva. Ma non ne era succubo. Valentino Parlato era comunista ma anche un libero pensatore. Che questo significasse essere «comunista eretico», come spesso erano definiti i fondatori de il manifesto, non era precisamente il suo caso, lui, di quel gruppo, era forse il più legato, e lo era rimasto abbastanza, alla cultura del Pci da cui pure era stato radiato.
Un po’ si prendeva in giro, anche per il gusto di spiazzare l’interlocutore, quando ricordava la sua formazione amendoliana, e l’approdo all’ingraismo, maturato tardi rispetto agli altri vecchi del manifesto, e per certi versi riluttante. Il suo nemico era il conformismo, sotto qualsiasi forma.

Questo incredibile mix di rigore e di anticonformismo, del resto, non era solo politico, era anche culturale, ed era evidente nei suoi articoli, molto personali, talvolta scritti in prima persona, con il gusto dell’aneddoto, pezzi profondamente democratici, nel senso proprio, cioè destinati a essere letti da tutti, senza avere mai lo scopo d’indottrinare nessuno, testi in cui spesso sosteneva posizioni controcorrente, anche rispetto alla linea del giornale, se mai di linea si possa parlare a proposito di un quotidiano più simile a una nave corsara (anche nella sua indisciplina interna) che a un organo politico.

Apparteneva a una generazione di comunisti e a un’epoca della politica in cui ci si chiamava per cognome, anche tra amici. Impensabile nel Pci l’esibizione narcisistica di adesso di politici che si chiamano l’un l’altro per nome, avvalorando la sensazione che sono parte di una casta. Eppure Valentino, quasi nessuno lo chiamava Parlato. Era per tutti Valentino. Perché era simpatico, affabile, diretto e disponibile. Nella sua stanzetta a via Tomacelli, tale anche da direttore, si vedeva ogni tanto un signore anziano malmesso, che Valentino accoglieva e ascoltava, gli lasciava anche qualcosa e lo invitava al bar. E poi la sera stessa potevi trovarsi in qualche cena con Cesare Romiti. Con affetto e con rispetto, il barista e la cassiera di via Tomacelli lo chiamavano signor Valentino. In quel signor Valentino, c’era la sintesi di un personaggio pubblico conosciuto, amato e rispettato.

Nell’archivio del manifesto si possono leggere le centinaia di articoli scritti da Valentino. Sono tanti i suoi articoli, anche rispetto a quelli degli altri fondatori, – parliamo dell’epoca in cui c’erano Pintor, Rossanda, Notarianni – perché a lui spesso incombeva il compito di scrivere l’editoriale d’apertura, quando ci si rendeva conto, quasi in chiusura del giornale, che mancava il commento, vuoi perché non era stato assegnato a nessuno vuoi perché non era venuto come doveva quello programmato. Ed era alla fine Valentino ovviamente, previa visita al bar per il mezzo whisky e la Marlboro, che doveva farsi carico dell’editoriale. Famosa la sua battuta sul cetriolo e l’ortolano. Persona molto colta, e uno dei pochi al giornale che capisse di economia, aveva la rara capacità di unire velocità e sostanza. Con uno stile suo riconoscibile, com’è dei giornalisti di razza.
Valentino è quello che ha dato più di tutti al manifesto. Ha dato moltissimo per la vita stessa del giornale, adoperandosi incessantemente e personalmente, grazie a un’incredibile rete di relazioni, per trovare le risorse finanziarie necessarie. Era straordinariamente capace di farlo, parlando con tutti, rispettato da tutti, con la caparbia convinzione di fare la cosa giusta.

Forse per questo, più di tutti ha sempre sofferto delle fratture che hanno segnato le fasi dell’ormai lunga storia del quotidiano comunista, specie l’ultima, che l’ha vissuta da persona con la salute incerta, sempre con l’assillo di potere ricomporre e riportare tutti i compagni sotto lo stesso tetto.