In una parola
Rubriche

Il silenzio le parole e la politica

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
Pubblicato circa un anno faEdizione del 7 novembre 2023

«Parliamo, parliamo, parliamo; e la rete ci consente di farlo più che mai, come non mai. Con presunzione, con prepotenza. Ci illudiamo che le nostre parole abbiano un valore, un potere, ma in realtà non ne hanno. È questo che succede quando le parole scaturiscono dal rumore, anziché dal silenzio, e non risultino iscritte in un noi che le faccia respirare, che dia loro aria: succede che tutto passa, tutto è uguale, tutto è vano».

Una amica femminista mi ha regalato alcune copie (“così le dai ai tuoi amici”) di un libretto da cui è tratta la citazione: credo di aver capito che lei lo ha apprezzato perché via ha scorto la riflessione di un uomo che giunge a conclusioni sul linguaggio, sulle relazioni e sulla politica vicine a certe scoperte e pratiche del femminismo. Ma seguendo una strada “sua”.

Il libretto, poco più di 80 pagine, è uscito recentemente da Mimesis, e ho scoperto che qui esiste una collana intitolata “Accademia del silenzio”. Il titolo riprende questa indicazione: Il silenzio del noi. L’autore, Niccolò Nisivoccia, che i lettori di questo giornale conoscono per suoi scritti su opere di poesia (lui stesso è anche poeta) parte da una citazione di Camus: «La tragedia non è essere soli. Ma non poter esserlo. A volte, darei tutto per non essere più in alcun modo legato al mondo degli uomini. Ma io sono parte di quel mondo e la scelta più coraggiosa è di accettarlo e di accettare contemporaneamente la tragedia».

Frase di acuta attualità. Di fronte agli orrori che ci circondano e ci attraversano la tentazione di ritrarsi, sottrarsi, esodare verso qualche altrove è ben presente. Qualcuno sostiene che proprio questa resta l’unica alternativa “politica” possibile. Viviamo in un momento in cui la politica – è il titolo di uno dei capitoletti – «ha smarrito la sua ragione d’essere».

C’è la traccia di una genealogia, maschile, perché ritorna l’evocazione di un “silenzio dei padri” che si accompagnava alla passione collettiva per una politica fatta di scambi e parole “vere”, non viziate e nullificate dall’affermazione di un “io” che insieme è la grande conquista della libertà soggettiva moderna ma anche l’involuzione di un individualismo che ha generato forme di idolatria.
Qui ho avvertito il rischio di qualche luogo comune e un interrogativo sul significato di quel silenzio paterno che non fa parte della mia esperienza – forse un fatto generazionale? – e che quindi non rimpiango. È sulle parole e suoi comportamenti di mio padre, e qualche altro maschio che ha contato nella mia vita, che torno a riflettere.

Mi ha colpito altro. Il racconto del silenzio molto parlante nell’incontro imprevisto, vent’anni dopo, tra Marina Abramovic e il suo vecchio compagno Ulay, in una performance dell’artista nel 2010, al MoMa di New York. E l’idea di un «impegno politico minimo…nella vita di tutti i giorni, senza distinzione fra pubblico e privato». Dimensione in cui il «privato diventa pubblico o, se si preferisce, nella quale il personale diventa collettivo». Un girare intorno al detto femminista “il personale è politico”: per distanziarsene o per arrivarci?

Il testo chiude con la prospettiva che la “cura” del silenzio e di parole più vere – la cura di sé e degli altri – possa costruire una “ideologia” più leggera, non – direi – un programma di partito di vecchio stampo, una rigida “visione del mondo”, ma un «pensiero accomunante, all’interno del quale il nostro io possa tornare a parlare in nome di un noi». Con la «visione di un’utopia…il sentimento di fraternità laica o, se si preferisce, di solidarietà umana e terrena».

Parole che avrebbero anch’esse bisogno di essere risignificate? Forse bisognerebbe provarci.

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