Visioni

Il segreto lato comico di Orson Welles

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Teatro Ritrovato lo scorso anno, «Too Much Johnson» è stato presentato al Film Forum di New York come parte di una performance live della piéce omonima di Gilette

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 21 febbraio 2015

Partito l’anno scorso dalle Giornate del cinema muto di Pordenone (dove tra l’altro è stato ritrovato il film, e da dove ne aveva scritto su queste pagine Sergio Germani), il denouement mondiale del film perduto di Orson Welles, Too Much Johnson, ha avuto la sua ultima incarnazione, forse la più wellesiana di tutte, al Film Forum di New York. Una delle punte di una ricca (5 settimane densissime) retrospettiva dedicata a Welles in occasione del centenario, Too Much Johnson è stato infatti presentato al Forum come originariamente lo aveva inteso il regista di Quarto potere, e cioè parte integrante di una performance live della pièce omonima di William Gilette.

 

«Sia a New York che a Los Angeles c’erano state della proiezioni del film. Volevamo fare qualcosa di nuovo e ho pensato: perché non tentare di fare quello che aveva in mente Welles? E che nemmeno lui era riuscito a mettere in atto…», ci ha detto Bruce Goldstein, direttore della programmazione di repertorio del Forum e già produttore di acrobatiche ricostruzioni dal vivo di film perduti, in parte o del tutto, come The Donovan Affair di Frank Capra (1929) e la commedia pre code Convention City, di Archie Mayo (1933).

 

 

 

Secondo quanto si legge anche in Io Orson Welles, il fondamentale libro intervista dedicatogli da Peter Bodganovich, Welles considerava la messa in scena di Too Much Johnson una delle produzioni migliori del suo Mercury Theatre – abortita purtroppo per ragioni tecniche tra cui la mancanza di attrezzatura per proiettare gli spezzoni di film- dopo una settimana circa di rodaggio allo Stony Creek Theatre di Brandford, in Connecticut, nel 1938.
«Too Much Johnson aveva una complicatissima trama comica di cui si doveva dare conto con noiose spiegazioni fuori moda. L’idea era di togliere tutto e di spiegarlo con il film. Così si poteva incominciare dal solito traffico di entrate e uscite del teatro boulevardier», ha raccontato Welles a Bogdanovich, illustrando le ragioni per cui aveva girato «con una macchina da presa qualsiasi e senza sonoro» questa «parodia di una commedia dei tempi del muto, con un grosso inseguimento sui tetti di un vecchio mercato di pollame a New York» – con Joseph Cotten in un ruolo che avrebbe potuto essere di Harold Lloyd e in cui appaiono, insieme a bellissime sequenze di New York e di Cuba reinventata in una cava a nord della città, non solo l’energia, ma parecchie idee di mise en scene che Welles avrebbe esplorato nei suoi film successivi.

 

«Ogni tanto senti dire che è arrivato sul set di Quarto potere senza conoscere niente di cinema. È una stupidaggine. Si vede benissimo già in Too Much Johnson che, in ogni scena, sapeva perfettamente dove mettere la macchina da presa. Tra l’altro il suo operatore veniva dai newsreels, quindi è difficile che sia stato lui a influenzarlo» ci dice Bruce Goldstein che, insieme al regista teatrale Allen Lewis Rickman, e a un gruppo di attori newyorkesi (che riprendono i personaggi del testo teatrale riflessi anche film), ha allestito la pièce nel piccolo spazio sotto lo schermo di una delle sale del Film Forum – compresa di luci, entrate e uscite «di scena», rimandi dal vivo a quello che succede sullo schermo, e intertitoli appositamente creati per l’occasione. Senza contare il gesto ardito di «montare» i materiali di Welles (da sessanta minuti circa di film ritrovato ne hanno usati circa trentacinque).

 

«Per capire come organizzare il girato, bisogna capire la pièce. Ho letto tutto quello che è disponibile di quel testo, inclusa la stesura originale, del 1894, che tra l’altro non conteneva indicazioni di regia, e una versione con gli appunti di Welles. A quel punto, gli intenti del materiale filmato diventano molto chiari. In un certo senso, ero meno spaventato dal tagliare le immagini, che dalla possibilità di sbagliare il tono degli intertitoli, nonostante sia cresciuto a forze di comiche a due rulli», ci dice ancora Goldstein, che ha usato dei «cartelli» anche per presentare i personaggi e per riempire buchi narrativi creati nella parte di girato che è andata perduta.

 

 

 

Messa in scena due volte (entrambe hanno registrato il «tutto esaurito»), ne è uscita una performance spericolata, di avanguardia-retro, e molto divertente; ricca dello spirito sperimentale, che si associa naturalmente al Mercury Theatre, e che valorizza l’esperienza meravigliosamente sennettiana del film (finora accompagnato da presentazioni più accademiche, curate dalla George Eastman House che è anche responsabile del restauro), nell’ottica in cui Welles l’aveva immaginata.

 

«Dato che i soggetti dei suoi film sono molto ’seri’, si sottovaluta spesso quanto Welles fosse divertente», riflette Goldstein.
«Aveva un grande senso della commedia. Nel libro di Bogdanovich parla con molto affetto e ammirazione di Keaton, Lloyd, W.C. Fields. E recentemente stavo guardando una sua interista del 1974, rilasciata alla Bbc, in cui Michael Parkinson gli chiede quali erano le sua star favorite. Il primo che nomina è Buster Keaton. Garbo è al secondo posto».

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