«Carmi. Suonare forte!» era scritto su un piccolo rettangolo di carta fissato con le puntine al portone di legno tinteggiato di verde, lassù all’apice di una scalinata ripidissima. Solo negli ultimi tempi, da quando era ormai allettata, Lisetta Carmi riceveva meno visite nell’abitazione dove viveva da mezzo secolo, nel centro storico di Cisternino (Brindisi). È in questo borgo di calce bianca che il 5 luglio si è spenta all’età di 98 anni (era nata a Genova il 15 febbraio 1924). Le sue ceneri saranno disperse in mare, in base alle sue disposizioni.
L’accoglienza e l’ascolto facevano parte del suo modo di essere, e anche di vivere, da quando il guru indiano Shri Babaji Haidakhandi Mahadeva (è lui che le ha dato il nome di Janki Rani) le assegnò la missione di fondare l’ashram Bhole Baba di Cisternino con l’obiettivo di diffondere il suo messaggio di «Verità Semplice ed Amore». Lisetta aveva scoperto la Puglia nel 1960, viaggiando insieme all’amico Leo Levi, etnomusicologo e ricercatore che si era recato presso la comunità degli ebrei di San Nicandro Garganico (fondata da Donato Manduzio) per documentare il repertorio musicale di inni e canti composti tra il 1930 e il 1945: un unicum nella tradizione popolare e religiosa del paese.

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DA PIANISTA, anche lei aveva una certa sensibilità per le sonorità (aveva con sé i due volumi dell’amato Clavicembalo Ben Temperato di Johann Sebastian Bach quando, nel 1943, passò con la famiglia il confine svizzero per scampare alle persecuzioni nazi-fasciste), ma in quell’occasione aveva pensato, piuttosto, di allenare il proprio sguardo. Tutto è successo in modo naturale, come del resto in altri passaggi della sua vita: aveva comprato una fotocamera compatta dell’Afga (serie Silette), destinata a utenti inesperti e aveva con sé nove rullini. I suoi scatti inquadrano volti di bambini, paesaggi, strade e case; tra l’altro (sempre a proposito di Puglia), in occasione di Panorama Monopoli, mostra diffusa di Italics 2022 a Monopoli (1-4 settembre) le sarà conferito il riconoscimento dell’Italics d’oro per il suo lavoro fotografico e artistico.
«Quando mi chiedono chi mi ha insegnato a fotografare, rispondo sempre la vita – affermò durante l’intervista pubblicata su Alias nel 2016 – Non ho mai fotografato per essere una brava fotografa. Non me ne fregava niente. Volevo capire. Capire gli altri e capire me stessa. Tutto lì. E, in diciotto anni – dal 1960 al 1978 – ho fatto quello che altri fotografi facevano in cinquanta o sessant’anni, perché lavoravo diciotto ore al giorno. Stampavo tutto da me, preparavo le didascalie, scrivevo l’articolo. Ho sempre dato voce ai poveri. Sempre! Sono ebrea e so cosa vuol dire essere discriminati».
Proprio il desiderio di capire la porta a lasciare la musica, quando il suo maestro Alfredo They la mette in guarda sul pericolo di partecipare allo sciopero generale dei portuali (il 30 giugno 1960). «Il mio maestro mi disse: ’Non puoi andare, per carità. Se ti rompi una mano?. ’Ecco, se le mie mani sono più importanti del resto dell’umanità, domani smetto di suonare’, gli risposi. E il giorno dopo smisi. Mi piaceva molto insegnare e ho continuato a farlo ancora per tre o quattro anni, ma poi ho smesso. La musica è stata una grandissima ricchezza; infatti, nelle mie fotografie c’è il ritmo musicale».

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ACUTA OSSERVATRICE di contenuti anti-retorici, Lisetta Carmi ha realizzato straordinari reportage, soprattutto in bianco e nero, dal post alluvione di Firenze agli scatti di Ezra Pound a Rapallo, dal parto alle tombe del cimitero di Staglieno, dal Venezuela all’Afghanistan, dalla Sicilia alla Sardegna rurale, dai bambini ebrei di Ashkelon (Israele) a quelli palestinesi di Gerusalemme e tantissimo altro: un archivio, il suo, che continua a riservare straordinarie sorprese.
Ma è Genova lo scenario dei suoi due lavori più celebri. Il primo del ’64 (legato all’episodio di They) è una denuncia sulla condizione dei lavoratori del porto che, oltre al contenuto di matrice sociale, rivela una lucida attenzione alla composizione e al dettaglio dell’ambiente e degli esseri umani che ne fanno parte.

REALIZZATE DI NASCOSTO, unica donna a muoversi in quel contesto, queste foto furono esposte nella mostra itinerante Genova Porto: monopoli e potere operaio patrocinata dalla Filp-Cgil che giunse anche in Unione Sovietica (senza più tornare indietro). Invece, i vicoli dell’ex ghetto, tra la Piazzetta dei Fregoso e Via del Campo (la strada cantata da De André e musicata da Enzo Jannacci), storico territorio di meretricio, sono lo sfondo di una narrazione senza pregiudizi, né tabù, confluita nel libro I travestiti (Essendi editrice, 1972). Un rarissimo, bellissimo e costosissimo volume da collezione che allora fu oggetto di polemiche e censure.
«Pensa che ho lavorato sei anni con i travestiti, mica un giorno! Un mio amico carissimo, Mauro Gasperini, mi disse che quella sera ci sarebbe stata una grande festa dei travestiti e mi chiese se ci volessi andare con lui. Gli dissi di sì, andai e feci un po’ di fotografie. Infatti, nel libro ci sono anche le fotografie della festa di capodanno 1965. Io non davo giudizi e loro si sono lasciati fotografare. Guardavo tutto per capire. A quel tempo mi sentivo un po’ donna e un po’ uomo. Mi chiedevo perché dovevo essere una donna. Avevo due fratelli e, quando ero piccola, volevo essere un maschio. Mi tagliavo i capelli. Alla fine del lavoro con i travestiti ho capito che non esistono gli uomini e le donne, esistono solo gli esseri umani. Uno ha il corpo da donna e l’altro da uomo, ma sono solo esseri umani. Dopo due o tre giorni tornai con le stampe delle loro fotografie che regalai ad ognuno. Così è cominciata questa amicizia. La polizia, se avesse potuto, mi avrebbe arrestato, ma ero di una famiglia molto perbene di Genova».

TRA IL 1965 E IL ’71 l’autrice realizza oltre duemila fotografie, di cui solo una ristrettissima selezione viene pubblicata nelle pagine del libro in cui è la stessa Lisetta Carmi a scrivere in conclusione del testo introduttivo: «Mi diceva un travestito, riferendosi alla sua vita privata e non certo al suo lavoro: ’Quando io ho un rapporto d’amore, non mi importa se è con un uomo o con una donna: è un essere umano che in quel momento mi dà se stesso e al quale io concedo me stesso’. Una difesa dell’omosessualità? No. Forse è invece un’apertura verso rapporti umani più veri e più liberi e il rifiuto di rapporti standardizzati e violenti».

 

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Uno stralcio dall’intervista raccolta a casa di Lisetta Carmi da Manuela De Leonardis, pubblicata su «Alias» nella edizione speciale del 31 dicembre 2016

«Sono ebrea e so cosa vuol dire essere discriminati. Avevo 14 anni, quando mi hanno buttata fuori dalle scuole. Mi piaceva andare a scuola, mi divertivo con le mie amiche. Ero bravissima, poi di colpo è finito tutto. Eravamo in vacanza in Val Martello, nel nostro albergo c’era anche Ardito Desio. Lo conosci? Un porco! Ci metteva sul tavolo la rivista La difesa della razza per farci vedere cosa ci sarebbe successo. Infatti, quando tornammo a Genova, entrarono in vigore le leggi razziali. I miei fratelli Eugenio e Marcello in quindici giorni partirono per la Svizzera, ma io ero la femmina e dovevo rimanere a casa. Ero tutta triste, non ridevo più. Allora la mamma disse che avrebbero mandato anche me in Svizzera e scrisse una lettera al maestro di pianoforte Alfredo They, di cui ero la migliore allieva. Lui quando, la lesse, la strappò e disse che non se ne parlava neanche. Così non partii. Quando poi, nel 1943, con papà e mamma sono partita per la Svizzera passando il confine attraverso le montagne, con i tedeschi che potevano prenderci, portavo la mamma sottobraccio e dall’altra parte avevo i due volumi del Clavicembalo ben temperato di Bach. Quando arrivammo lì e ci dissero che eravamo salvi, ricordo ancora che c’era una luna piccola nel cielo e la mamma la guardava, seduta su una valigia, e le venivano giù le lacrime dagli occhi. In Svizzera, dove siamo stati per un anno e mezzo, sono entrata subito al Conservatorio. Ma anche lì ho avuto delle esperienze molto tristi. Sembravo allegra, ridevo sempre, però ero molto sensibile. ’Peccato che non m’hanno presa i tedeschi’, dicevo a mio padre. ’Ma che figlia matta, ci siamo salvati in Svizzera!’, mi rispondeva lui. Sì, perché se mi avessero presa o sarei morta o avrei potuto aiutare gli altri».