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Il ristorantino del calligrafo amato da Patti Smith

Il ristorantino del calligrafo amato da Patti SmithMikio Shinagawa, "Starlight", 2004, cm 180,7 x 358,1 x 5,1, collezione Gian Enzo Sperone

Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Mikio Shinagawa «Era monaco buddista di Kyoto, Mikio: le opere di grande formato, caratteri neri su fondo oro. Organizzai una mostra a New York: c’erano quattro gatti; tra questi, però, una decina di Regulars... Nel 1981 a Soho aveva aperto il locale Omen, cucina estetica apprezzata dagli artisti»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 20 agosto 2023
New York, Soho: il ristorante Omen di Mikio Shinagawa, all’estrema sinistra; all’estrema destra, Patty Smith e Richard Gere

Nel 2020 la poetessa e performer americana Patti Smith ha scritto un grazioso articolo intitolato The Regulars e dedicato al pittore-calligrafo Mikio Shinagawa, in occasione dei quarant’anni del ristorante giapponese Omen.
Va ricordato che questo monaco buddista, dalla natia Kyoto era andato giovanissimo a studiare e meditare in Tibet, per poi trasferirsi a New York nel 1976 , con dispensa dal servizio monacale. Il Dalai Lama, nella sua leggendaria preveggenza, aveva creato in America un centro tibetano, ben consapevole che servivano forze diverse fuori dal Tibet per mantenere viva la fiaccola buddista. I monasteri tibetani erano infatti ormai soffocati dall’aggressivo attivismo cinese; anche l’ultraottantenne Rinpoche, uno dei primi maestri del Dalai Lama, era stato inviato in America con licenza non di proselitismo, giacché questo non è nelle corde buddiste, ma di testimonianza silenziosa tra i simpatizzanti americani.
Mikio, che era pittore-calligrafo, esercitava tale professione dopo le due ore quotidiane di meditazione. Per pagarsi la vita aveva infine aperto nel 1981 a New York un piccolissimo ristorante giapponese, ispirato alla cucina rustica di Kyoto.
Ciò avveniva nel cuore «antico» di Manhattan, Soho, al 113 di Thompson street, e lo stile era definitivamente buddista, il che era piaciuto subito al mondo dell’arte, facendo del ristorante luogo di culto, incontri, e di delizie: sono stato uno tra i frequentatori della prima ora.
Mikio gestiva il ristorante con suprema riservatezza e anche con un briciolo di stravaganza, quando ci serviva il sake nelle tazze di legno quadrate con la foglia d’oro fluttuante (kinpaku): le due piccole stanze erano disadorne, a parte alcuni ideogrammi eseguiti da Tetzusan Shinagawa, pittore-calligrafo e padre di Mikio.
Le composizioni di Tetzusan contenevano spesso il carattere «MU», che in giapponese suonerebbe «Nulla». Non c’era peraltro differenza evidente con l’opera del figlio, che aveva però introdotto il grande formato e la calligrafia dilatata a caratteri neri su fondo oro.
Anche il modo di servire il thè era vicino allo spirito Zen; un incrocio perfetto tra cibo ed estetica.
Nel 2004 dedicai a Mikio Shinagawa una mostra personale nella mia galleria newyorchese, allora situata sulla 9 Av. fra 13th e 14th strada. All’inaugurazione c’erano quattro gatti, perché il mondo talvolta tirannico e intollerante dell’avanguardia non ama molto gli spostamenti dal codice dominante del momento. Ma c’erano almeno una decina di Regulars, estimatori senza riserve delle calligrafie di Mikio nonché habitué di Omen. Fra gli altri l’attore Richard Gere, sostenitore da sempre della causa tibetana, Lou Reed e Laurie Anderson, e la «fedelissima» Patti Smith, Julian Schnabel, Francesco Clemente, la giornalista Annalisa Milella. Ero orgoglioso di essere il padrone di casa e promotore di quei giganteschi ideogrammi, ovviamente non in vendita.
La mia prima galleria a New York l’avevo aperta nel 1972 proprio a Soho insieme al mio socio d’allora Pier Luigi Pero, che aveva studiato al MIT di Boston e conosceva l’America molto meglio di me. Nel 1975, già in apnea profonda, avevamo ceduto i due terzi della galleria a Konrad Fischer (che era già mio socio a Roma) e ad Angela Westwater, all’epoca fidanzata di Carl Andre, che portò in dotazione alla galleria. Questo importante artista minimalista aveva annullato la millenaria verticalità della scultura sino a piazzare sul pavimento piastrelle quadrate di vari metalli, all’occorrenza calpestabili.
Negli anni sessanta Soho era diventata territorio off-limits per privati non «accreditati», e quindi si vedevano solo artisti e gallerie, dopo essere stato per un centinaio di anni quartiere industriale, con locali stipati sino all’inverosimile di operai migrati dall’Europa, in gran parte italiani, polacchi, irlandesi. Quella zona dell’antica New York ospitava migliaia di cosiddetti lofts in cui lavoravano i dipendenti in gran numero: si usava chiudere le porte al mattino per poi riaprirle a fine giornata (orari pesanti). Tale pratica cessò quando morirono asfissiati molti degli operai, dopo un principio di incendio. Soho si era salvata per miracolo dalla furia di un progettista/immobiliarista, Robert Moses, che intendeva ridisegnarla con una strada/autostrada a Broome Street, per fortuna mai realizzata.
Ho abitato negli anni in alcuni di questi lofts e ho sempre percepito un lieve senso struggente di dolore rimasto nelle pareti e nei pavimenti. Ma la mia vita quotidiana nella galleria mi distoglieva da quei pensieri, e sguazzavo felicemente nel sogno dell’arte con le sue aspirazioni e illusioni.
Tornando al monaco-pittore Mikio, egli andava quasi tutti i mesi a Kyoto, dove aveva un giardino incolto, ideale per la meditazione, lasciatogli da suo padre, sicuro che il figlio non ne avrebbe fatto alcunché di commerciale. Lì, immaginava i suoi ideogrammi, che avrebbe poi portato arrotolati a New York: sempre ispirandosi al carattere «MU» su fondo oro.
Mikio è morto a 66 anni nel novembre 2021, lasciando un vuoto incolmabile tra i Regulars e in tutti i frequentatori di Omen che amavano il cibo giapponese servito in modo estetico.

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