Numerose rilevazioni segnalano l’estate del 2022 come fra le più calde, tanto per le temperature di punta registrate quanto per la media di periodi più lunghi. Ma al di là del sensazionalismo estivo sugli aspetti più coloriti o roboanti fatica a partire un ragionamento che colleghi gli aspetti climatici alle dinamiche strutturali del capitalismo.
Qualcuno lo fa, e non precisamente un esponente dell’ambientalismo o un figlio dei fiori.

Va segnalato che le conseguenze del cambiamento climatico vengono ritenute assai significative in merito alle conseguenze geopolitiche e di sicurezza globale.

Al di là di ogni sensibilità «verde», il Pentagono e le agenzie statunitensi di intelligence hanno indicato quanto esse costituiscano una minaccia alle sicurezza nazionale Usa.

Una delle ultime pubblicazioni, il Department of Defense Climate Risk Analysis di fine 2021, elenca le possibili cause di instabilità globale per tali ragioni che costituiscono una sfida per l’esercito statunitense.

A inizio 2020 una delle punte di lancia dei potentati economici lancia un rapporto minaccioso.

La Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) ha sede a Basilea, è una possente entità con struttura di una SpA creata negli anni Trenta, posseduta dalle più potenti Banche Centrali del pianeta (fra cui la Cina) e geometrico punto di incontro delle più potenti istituzioni finanziarie internazionali. Da quelle parti in meticolosi rapporti si preferisce parlare chiaro – tanto solo la più rarefatta numenclatura li legge.

Al di là di sentimentalismi «green» e dei disinformatori al servizio delle aziende del fossile, la relazione si intitola: Cigno verde. Cambiamenti climatici stabilità del sistema finanziario: quale ruolo per banche centrali, regolatori e supervisori.

Il «cigno verde» echeggia la metafora del cigno nero esprimente la imprevedibilità nella crisi economica globale del 2007-08 in un libro scritto a ridosso di essa. Nei manuali di filosofia si cita tale esempio a proposito del fatto che per quanto numerose conferme si accumulino, basta una singola smentita per far colare a picco un assunto che si pretende certo e universale.

Nel rapporto della Bri l’imprevedibile che irrompe sono le conseguenze della crisi climatica, che incidendo su tanti piani (sociale, politico, biologico, della salute, delle risorse) possono dare luogo ad un effetto domino tanto da poter portare ad una nuova crisi economico-finanziaria mondiale.

Le banche centrali dovrebbero approntare modelli predittivi migliori includendo le variabili ambientali, inserirsi in uno sforzo di coordinamento globale per accelerare le politiche di mitigazione e – particolarmente interessante – spingere ad includere nei parametri di solidità della banche commerciali tale aspetto.

A luglio scorso la Bce ha divulgato le conclusioni di una sessione di «stress test». Si tratta di analisi che la vigilanza europea esercita sugli istituti della sua giurisdizione – quelli più grandi ed importanti, anche se bisogna ricordare che i criteri assunti hanno inserito nella supervisione comunitaria molte banche di alcuni paesi (come la Francia) e poche di altri (Germania), in maniera più sospetta che sensata (nessun governo fa salti di gioia a vedere le sue banche sorvegliate da enti sovranazionali).

Il risultato è stato sconfortante: il 60% delle banche esaminate non ha una sufficiente attenzione ai rischi determinati dal cambiamento climatico. Si tratta di rischi legati alle proprie attività di investimento. Bisogna ricordare che la perdita di valore delle attività si ripercuote in una erosione del capitale – potenzialmente sino all’insolvenza.

Ovviamente restiamo nel campo «mainstream» di regolazione interna alle logiche di mercato. Da questo versante non uscirà nessuna istanza strutturale, tale da erodere il profilo severamente mercatista del panorama.

Ma è da notare che almeno si inserisce la variabile climatico-ambientale nei ragionamenti e nei criteri valutativi, il che pare decisamente assai più di quanto non faccia la politica che in Italia si sta incamminando verso la campagna elettorale.