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Il requiem americano di Clint

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La notte degli Oscar A partire da una autobiografia monodimensionale scritta da un cecchino impenitente Clint Eastwood fa un film scomodo e feroce. E che parte non favorito

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 21 febbraio 2015
Luca CeladaLOS ANGELES

E non favorito, American Sniper arriva all’anticamera dell’Oscar quantomeno come il film del 2014 che ha fatto più discutere, il più politico e «attuale», grazie anche al processo appena cominciato in Texas all’assassino del protagonista della storia, Chris Kyle. Eastwood qui c’è già stato: l’Oscar alla carriera ha precedentemente portato a casa statuette per Gli Spietati e Million Dollar Baby e assortite nomination per Mystic River e Lettere da Iwo Jima. Nessuno di quegli acclamati lavori della sua opera matura si è però mai avvicinato a Sniper per il clamore suscitato.  Stavolta Clint, che pure nella sua lunga filmografia si è occupato di guerra e quasi enciclopedicamente di violenza, si trova nell’occhio di un ciclone di polemiche senza precedenti. Sui meriti politici del suo film si sono espressi critici, politici e intellettuali.  Coperto di gloria al botteghino (con incassi americani di otre 300 milioni di dollari Sniper è di gran lunga campione di incassi di tutti i 37 lungometraggi diretti da Eastwood) è stato attaccato e deriso come opera militarista e patriottica, un apologia dell’intervento americano in Iraq e Afghanistan, ode al machismo yankee e incitamento al cecchinaggio. «Mio zio è stato ammazzato da un cecchino nella seconda guerra mondiale» ha detto Michael Moore, «a noi hanno sempre insegnato che i cecchini sono vigliacchi». Sul presunto fascism di Sniper si è espresso Seth Rogen che lo ha paragonato a Stoltz Der Nation il fittizio film di propaganda su un eroico franco tiratore nazista inventato da Quentin Tarantino per Bastardi Senza Gloria. Noam Chomsky ha dichiarato Sniper un espressione della propaganda di stato e della mentalità terrorista delle politiche estere americane.
A favore del film ha invece parlato John McCain, il guerrafondaio senatore che lo ha definite «compassionevole rappresentazione di un nobile guerriero americano»,  un film sui dolorosI sacrifici dei reduce (che se potesse – aggiungiamo – come principale paladino di nuovi interventi in Siria, Iraq e Ucraina, lui imporrebbe volentieri ad una nuova generazione di «nobili guerrieri»). Le dichiarazioni di McCain – più comprensibili forse dell’ingenuità di Chomsky – sono comunque emblematiche di un fondamentale equivoco, quello che addossa al film la colpa del sui successo: dato che molti conservatori lo hanno «adottato» ne consegue che è un opera di destra. Con analoga fallacia si postula che siccome Sniper assume la soggettiva di un navy seal che scalpita per andare «laggiù» a punire i nemici degli Usa,  si macchia dello suo stesso peccato. È la motivazione che ha indotto molta critica di sinsitra ad attaccare il film come propaganda.  Durante la promozione del film ho personalmente assistito al fuoco di fila di una platea di giornalisti che a Bradley Cooper, autore di una delle migliori interpretazioni dell’anno,  rinfacciava l‘intervento americano in Medio Oriente. È vero, il film è sulla guerra, sulla mentalità che la produce e la alimenta nell’intimo, quindi sulle radici dell’interventismo. Ma si ha l’impressione che molti critici esigano una narrazione programmatica, che reclamino una correttezza politica inequivocabile. Ma è poprio la propaganda ad essere la narrazione delle certezze, fosse pure virtuosa. Questo film invece è molto più complicato e potente in virtù delle sue ambiguità . Non è Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale, semmai è Sentieri Selvaggi. Anche nei film «d’autore» della sua prolifica maturità, infatti, l’idioma di Clint Eastwood è il genere. In Sniper  il suo eroe è un Achille pieno di taciturna e livida minaccia che porta la mortifera vendetta al nemico, alle sue donne e i suoi bambini. Tornato traumatizzato dal fronte come un Callaghan inceppato finirà per perire di quella stessa violenza. Nella rimarchevole interpretazione di Cooper si tratta di uno dei personaggi più autentici del canone del cinema di guerra. Vero redneck, Kyle è sicuro delle sue semplici verità, il «cane pastore» pronto a fare il proprio dovere e il proprio «mestiere»:  do my job – eliminare i bad guys. Sono i  termini esatti che usano i marines e i poliziotti d’America. Loro cacciano i «cattivi», rivendicando con la parola un giustizialismo fieramente manicheista che non va tanto per il sottile. E in quell «job» c’è l’etica protestante, utile a colonizzare le praterie, eliminare gli indiani o aggiustare il carburatore di un pick-up. Questa è l’America che forse meglio di qualunque regista ci sa restituire Clint Eastwood in Sniper. Kyle parte per la guerra come un Ethan Edwards, l’ossessivo, suprematista cacciatore di indiani di Jon Ford in  Sentieri Selvaggi, per citare appunto un altro grande film disprezzato da generazioni di critici «di sinistra». Per questo John Wayne di turno però  non ci può essere «Coming Home» se non nella versione da incubo dell’omonimo film di Hal Ashby: finirà a fissare inebetito i replay della guerra da cui non riesce più a tornare. A partire da una autobiografia monodimensionale scritta da un cecchino impenitente Eastwood fa un film scomodo e feroce. Dalle semplici certezze di Kyle estrae complicate verità a partire dalla dissociazione di un paese che esporta le guerre e le metabolizza nella banalità del quotidiano, nascondendo i pendolari della morte dietro montagne di retorica e indifferenza illudendosi di non doverne pagare il prezzo. Al suo psichiatra il protagonista del film dice di non avere alcun rimorso. «Sappiamo», ha detto Eastwood, «che è vero l’esatto contrario».  Un numero inquietante di soldati americani parlano e pensano come Kyle. Li trovi qui in California nei minimarket di Oceanside vicino alla base marine di Camp Pendleton o nei tattoo parlor di Twentynine Palms, l’altro principale centro di addestramento per le spedizioni mediorientali.  E li vedi di ritorno pochi anni dopo, annientati dal PTSD destinati ad ingrossare le legioni di reduci fantasma. Clint li mette sullo schermo con la loro erotica attrazione per la bandiera e quella fatale per le armi da fuoco, apre uno spiraglio su quell’incomprensibile ethos americano. Quel luogo oscuro e misterioso che è il patriottismo così intrinseco alla psiche nazionale e che nella scena finale del film spinge i «patrioti» a sventolare la stars and stripes al corteo funebre di Kyle, disposti – bisognosi – di perpetuare la narrazione così fondamentalmente americana anche quando «l’eroe» è stato divorato dalla sua stessa violenza nella conclusione così perfettamente, ineluttabilmente circolare. I patrioti che acclamano il film sono capaci di immaginare la battaglia finale di Kyle come una gloriosa difesa di Fort Apache, ma nella lente di Clint Eastwood è chiaramente una caotica ritirata da una guerra futile e sanguinosa, un’altra evacuazione da Saigon. D’altronde ciò che pensa Clint ce lo ha spiegato ancora una volta a dicembre. «Quando è scoppiata la seconda guerra mondiale avevo 11 anni e nella mia vita ho assistito a molti mutamenti di opinione riguardo al patriottismo». Ha dichiarato alla presentazione del film, «quindi provengo da una generazione in cui il patriottismo era articolo di fede. Però già quattro anni dopo eravamo di nuovo in azione in Corea. Ricordo di aver pensato come fosse ironico che ci avevano appena finito di dire che non ci sarebbero state più guerre e di colpo eccomi reclutato. Era il 1951 e ci chiedevamo cosa diavolo ci stessimo a fare laggiù. Col Vietnam poi se lo chiese anche un mucchio di altra gente: perché continuavamo a farlo e quando sarebbe finita una volta per tutte? (…) Oggi vogliamo esportare la democrazia in altri paesi che non la vogliono nemmeno. (…). È tragico che sia così  ma credo anche che quando fai un film sulla guerra impari qualcosa su te stesso cominci davvero a riflettere sul ruolo che il tuo paese ha nelle guerre». A parlare è un regista che ha elaborato la violenza in 60 anni di carriera – l’uomo che nei suoi film è ripetutamente tornato alla guerra, alle guerre, giungendo ad osservare la battaglia di Iwo Jima con occhi giapponesi. Di recente i navy seals hanno preso il posto di marines e green berets nell’immaginario filmico nazionale, quello d’autore come Zero Dark Thirty, quello ambiguamente destrorso come Captain Phillips  e quello autenticamente fascista come  Act of Valor o il più osceno Lone Survivor. Lungi da quelle deliranti fantasie,  American Sniper è un altro ritratto americano nella galleria di Clint che promette di rimanere come documento cinematico di questa guerra come lo furono per il Vietnam film come Apocalypse Now o il Cacciatore; se non un mea culpa, comunque un necrologio del secolo americano. Perché Sniper mette agli atti qualcosa di profondamente vero politicamente e umanamente e cosa altro sennò dovrebbe fare il vero cinema?

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