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Il reato di chi riduce in schiavitù

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Lavoro Nel nostro ordinamento giuridico prevede e punisce il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù e il reato di riduzione o mantenimento in servitù. La rilevanza penale del disumano sfruttamento […]

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 21 febbraio 2015

Nel nostro ordinamento giuridico prevede e punisce il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù e il reato di riduzione o mantenimento in servitù. La rilevanza penale del disumano sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la predisposizione degli strumenti per punire severamente i responsabili sono presenti nell’ordinamento giuridico dello Stato fascista. Nel codice Rocco, con l’impegno assunto dalla Convenzione di Ginevra del 1926, all’art. 600, erano previste due ipotesi criminose: la riduzione in schiavitù e la riduzione in condiziona analoga alla schiavitù.
La nozione di schiavitù era fornita dall’art.1 della Convenzione di Ginevra del 1926 che la definisce come «lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuno di essi».
La norma, introdotta con la legge del 2003 e modificata con un decreto legislativo del 2014, scandisce con maggiore chiarezza la duplice ipotesi criminosa: 1) riduzione e mantenimento in schiavitù, nella quale il soggetto attivo «esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà», trattandola quindi come una cosa e utilizzandone la capacità lavorativa senza limite e senza possibilità di resistenza della vittima. 2) riduzione e mantenimento in servitù, nella quale il soggetto attivo «riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento e comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona».
In entrambi i casi il colpevole è punito con la reclusione da otto a venti anni; la pena «è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi».
Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo nelle forme e nei contenuti più incivili può aver luogo quindi in vari campi (sesso, accattonaggio, prostituzione, lavoro, commercio di organi umani) , ma alcune riforme legislative in corso di attuazione nel mercato del lavoro ci inducono a trattare solo l’attuale ipotesi di riduzione o mantenimento in servitù, sotto il profilo del cd lavoro servile, che è ben scandito dal comma1 (secondo periodo) e dal comma 2 dell’art. 600 c.p. che hanno sostituito la più vaga ipotesi residuale del vecchio testo del codice fascista (condizione analoga alla schiavitù.)
Dal testo della norma e dall’interpretazione effettuata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, emerge un’esauriente descrizione dei soggetti attivi e passivi, della condotta, dell’evento di questo reato.
Il soggetto attivo è chi ( datore di lavoro o chi – cd caporale- eserciti i poteri corrispondenti) , approfittando di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità dell’altro contraente, talvolta avvalendosi del reclutamento e avviamento al lavoro in violazione del divieto di intermediazione, stipuli un accordo o crei una situazione di fatto (Cass. N.3909/1990) in cui la persona che presti la propria opera (il lavoratore dipendente) in uno stato di soggezione continuativa (cioè di limitazione della propria libertà di autodeterminazione) costringendola a prestazioni lavorative che ne comportano lo sfruttamento (tipo servitù della gleba (cfr. Cass. n..2841/2007).
Passando all’esame della giurisprudenza consolidatasi sulla schiavitù va innanzitutto riconosciuto alla sentenza n. 2841/2007 il ruolo di pietra angolare, per passare da una interpretazione della norma del codice penale non simbolica , ma funzionale a un tutela effettiva della dignità della persona , che si traduca nel rispetto effettivo dell’art. 36 della Costituzione .
Va da sé che gran rilievo può avere la funzione dell’interpretazione giurisprudenziale, nel tracciare precisi confini tra trasgressione delle norme di diritto civile e trasgressione di norme di diritto penale
Nel complesso la giurisprudenza ha correttamente rilevato che si tratta di un reato a condotta multipla e a forma libera, con evento a forma vincolata (che comprende lo stato di soggezione e la prestazione che ne deriva), di natura permanente ( la protrazione dell’offesa del bene tutelato della personalità individuale dipende dalla volontà dell’agente) e abituale ( più condotte della stessa specie si ripetono nel tempo, come si desume dalla definizione dell’evento come soggezione continuativa ,accompagnato da una pluralità di prestazioni del soggetto passivo).
In relazione alla nozione di stato di soggezione e della correlata limitazione della libertà di autodeterminazione del contraente più debole del rapporto di lavoro, la giurisprudenza più recente ha stabilito che non è necessaria, per la sussistenza del reato, la totale privazione della libertà personale del lavoratore. E’ stato infatti stabilito che, ai fini della configurabilità del reato di riduzione in schiavitù, è necessaria la costituzione, da parte dell’agente, dello stato di soggezione continuativa, che determina una compromissione di durata prolungata nel tempo della capacità di autodeterminazione della persona offesa, senza che sia necessaria un’integrale privazione della libertà personale: rapportato alla limitazione in concreto alla libertà del dipendente, la soggezione e lo sfruttamento lavorativo non sono esclusi nel caso di residua libertà di autodeterminazione che non intacchi il contenuto essenziale della supremazia del soggetto attivo (Cass.n.8370/2014;n. 25408/2014; n. 44385/2013).
Fa comunque riflettere sulla mobilità di questo confine, sia l’incalzare della crisi dell’occupazione, sia un orientamento interpretativo, secondo cui non integra l’evento di riduzione o mantenimento di persone in stato di soggezione consistente nella privazione della libertà individuale, «la condotta dell’offerta di un lavoro con gravose prestazioni in condizioni ambientali disagiate verso un compenso inadeguato, qualora la persona si determini liberamente ad accettarla e possa sottrarsi una volta rilevato il disagio concreto che ne consegue» ( Cass. N. 13532/2011) .
Dinanzi al pericolo di configurazione di questo tipo di libertà fittizia, che escluda lo stato di soggezione continuativa, c’è da chiedersi quale libertà sia riconoscibile al contraente debole, nell’anno in corso e in quelli a venire, di sottrarsi al lavoro servile previsto e punito dal codice penale (confinato finora nell’agricoltura del Meridione), dinanzi al consolidamento della disoccupazione in tutto il paese, aggravata dalla modifica delle norme sulle mansioni, sul controllo a distanza dei lavoratori dipendenti, sull’ampliamento dei contratti a termine, sulla facoltà dei contratti collettivi a livello aziendale di disciplinare il rapporto di lavoro anche in deroga alla legge, sulla riduzione a ipotesi marginali della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo.

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