Il prezzo della lotta all’inflazione
Economia

Il prezzo della lotta all’inflazione

Scenari La stima di Eurotower è che al 30 giugno i salari «negoziati» hanno fatto registrare nella zona euro una crescita annua del 3,6% rispetto al 4,7% dei primi tre mesi dell’anno
Pubblicato 3 mesi faEdizione del 23 agosto 2024

L’economia e il lavoro vanno in sofferenza? Vuole dire che la nostra terapia per combattere l’inflazione sta funzionando. È quello che avranno pensato in queste ore ai piani alti della Bce, diffondendo i dati sui salari europei nel secondo trimestre. Forse il segnale giusto per un altro taglio dei tassi a settembre, dopo la mini sforbiciata di giugno (-0,25%).

La stima di Eurotower è che al 30 giugno i salari «negoziati» hanno fatto registrare nella zona euro una crescita annua del 3,6% rispetto al 4,7% dei primi tre mesi dell’anno. Un dato che fa il paio con quello sull’andamento del settore manifatturiero, ancora in frenata (a 45,6 punti dai 45,8 precedenti), per come emerge dai preliminari degli indici Pmi (servono a sondare il mercato dei materiali destinati alla produzione industriale), resi noti da S&P Global. Va meglio il settore terziario (a 53,3 punti da 51,9 precedenti), ma per molti analisti è solo questione di tempo: presto la recessione della manifattura potrebbe avere riverberi anche sui servizi.

In questo quadro chi soffre di più è la Germania (PMI manifattura a 42,1 da 43,2 punti), con un calo del Pil a giugno dello 0,1%, dopo il timido segnale di ripresa nel primo trimestre (+0,2%). Sono gli ultimi dati diramati dall’Ocse. E l’Italia? Certo non può gioire perché stacca Berlino di un decimale. Anche la nostra economia è in calo rispetto al primo trimestre (da +0,3 a 0,2%), e comunque siamo sotto la media Ue e dell’eurozona. Ma poi, c’è sempre il rischio dell’effetto domino: se crolla la Germania, sotto le macerie ci finiamo anche noi, visto il livello di integrazione della nostra economia con quella tedesca. Storia di un’inflazione da costi, combattuta a danno dei lavoratori, e a beneficio delle banche che hanno visto in questi anni lievitare fino all’inverosimile i loro profitti.

Intanto, si è aperto ieri a Jackson Hole, nello stato del Wyoming, l’incontro annuale dei banchieri centrali. Oggi il discorso del presidente della Fed Jerome Powell, dal quale si capirà se a settembre ci sarà o no un taglio dei tassi. L’andamento dell’inflazione (dal 9,1% del 2022 all’attuale 2,9%) e la crescita dei disoccupati farebbero propendere per il sì. Sarebbero ben 812 mila i posti di lavoro da scomputare da un precedente calcolo sull’andamento del mercato del lavoro nei dodici mesi finiti a marzo. Una sforbiciata del 30%. Che fa temere anche per un ritorno della recessione. Per adesso, i dati dell’Ocse, parlano di un’accelerazione dell’economia americana nel secondo trimestre (+0,7% rispetto al +0,4% del primo trimestre). Ma molti analisti coltivano dubbi sul futuro prossimo. Si basano sulla cosiddetta Regola di Sahm, un indicatore di recessione basato sugli incrementi percentuali nel tasso di disoccupazione, partendo dal minimo degli ultimi 12 mesi. È un ragionamento semplice: le imprese iniziano a licenziare, i lavoratori tagliano i loro consumi, l’economia prima ristagna, poi crolla.

Si vedrà. Di certo c’è che i grandi investitori sono già all’opera per riposizionarsi sul mercato (secondo il New York Times, alcuni di questi fondi avrebbero ricevuto il rapporto del Bureau of Labor Statistics sull’occupazione prima che venisse pubblicato, a proposito di chi comanda negli States). Per essi, anche le scommesse sulle crisi possono essere vantaggiose. Pandemie e guerre, cali della produzione e contrazione dei mercati, che per i comuni mortali sono sinonimo di guai, per i fondi speculativi possono rivelarsi occasioni ghiotte per lauti e rapidi guadagni. Che poi, se qualcosa dovesse andare storto, ci sono sempre gli stati e le banche centrali a rimettere le cose a posto.

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