«La scrittura, lei è il mio fuoco. Le storie nascono dal luogo dove in me sono avvenute la vita e la morte»: questa frase lapidaria, scritta da Lidia Yuknavitch nel memoir cui deve  larga parte della sua fama, La cronologia dell’acqua, offre una personalissima lettura del «patto autobiografico» su cui la scrittrice americana ha edificato il suo progetto narrativo. Tornano ora preziose, quelle parole, per inoltrarci nel mondo del romanzo che, pubblicato negli Stati Uniti nel 2015, ha consolidato la fama di Yuknavitch, imponendola come una delle scrittrici più importanti sulla scena letteraria americana: Lasciarsi cadere (traduzione di Alessandra Castellazzi Nottetempo, pp. 203, € 17,00).

Lontano sia dai romanzi mascherati da memoir – per esempio  di Jonathan Safran Foer (Ogni cosa è illuminata) o di Dave Eggers (L’opera struggente di un formidabile genio), che giocavano con gli stilemi del postmoderno – La cronologia dell’acqua attingeva al beat attraverso il magistero di Ken Kesey, con il quale Yuknavitch aveva lavorato a un romanzo collettivo, peraltro di modesta qualità; e rendeva omaggio, nella capacità di guardare al corpo femminile non solo nel contenuto ma nella forma stessa della scrittura, al genio iconoclasta di Kathy Acker o a maestre poco note in Italia come Lynne Tillman o Carole Maso; soprattutto, quel romanzo proponeva un’idea di scrittura insieme molto alta e del tutto aliena da intellettualismi. Una scrittura per la quale la stessa Yuknavitch dichiarava di non aver mai trovato una connotazione adatta: ne parlò come di una conseguenza di ciò che accade «quando prendi tutto quello che hai sempre saputo della costruzione dei personaggi, della trama, dell’intreccio e lo fai saltare in aria come facevo io da piccola con i petardi nelle teste delle Barbie».

La stessa idea di scrittura anima, sin dalle prime pagine, questo  Lasciarsi cadere; la co-protagonista del romanzo è una scrittrice che vive insieme al marito, regista cinematografico, e a un figlio ancora immerso nel mondo dell’infanzia e del gioco. Seduta in una «stanza blu mezzanotte» che ha personalmente allestito e trasformato nel proprio laboratorio, la scrittrice guarda il marito e il figlio intenti a smanettare con una videocamera e ragiona sulla natura della propria scrittura, innervata da due elementi che interagiscono tra loro e dai quali germina l’intero romanzo.

Il primo elemento: «Dentro a tutto ciò che scrivo c’è una bambina. A volte è morta e infesta la storia come un fantasma. A volte è un’orfana di guerra. A volte semplicemente gironzola. Forse la bambina è una metafora, o forse sono io, o forse è un personaggio che non smette di tornare. La scrivo e la riscrivo».

Il secondo elemento: «Ho sempre diffidato dei narratori. E dei personaggi, se è per questo. E delle figure retoriche che inventiamo per rimpiazzare le persone. O un io. È strano e innaturale, il modo in cui fanno quello che gli diciamo di fare, il modo in cui obbediscono. Non mi fido. Soprattutto dei narratori. Cacasotto».

Portavoce dell’autrice, la bambina che sta al centro di tutto ciò che Yuknavitch scrive di libro in libro, ha già preso forma nelle primissime pagine di Lasciarsi cadere. È effettivamente un’orfana di guerra – di quale, non è dato sapere: intuiamo solo che si tratta di uno dei numerosi conflitti dai quali l’Europa orientale è stata squassata nel corso del Novecento. La bambina ha subito ripetutamente l’oltraggio estremo dello stupro ed è scampata per miracolo all’esplosione che ha sterminato la sua famiglia: padre, madre e fratello maggiore. È stata immortalata da una fotografa nell’istante in cui sembrava emergere dalla fiammata che ha cambiato per sempre la sua vita, e la foto che la ritrae ha vinto il più importante premio al mondo e alimentato l’immaginario (sempre al confine con il voyeurismo) di migliaia e migliaia di persone. Dopo l’esplosione, la bambina è fuggita nei boschi, in mezzo alla neve, e ha trovato ospitalità in una fattoria nella quale vive una vedova, con cui ha instaurato una strana convivenza fatta di silenzi e di una lenta, graduale iniziazione all’arte.

Informata dell’esistenza della bambina dalla fotografa, con la quale intrattiene un legame di lunga data e che le ha spedito il suo diario di guerra, la scrittrice sprofonda in uno stato di catatonia apparente, che così descrive: «Sono nel bianco. Bianco come un campo innevato che si estende a perdita d’occhio. Bianco come una pagina. Se ci sono una foresta o una montagna o una città oltre il bianco, io non le vedo». Al centro di questo bianco, l’immagine della bambina, che la perseguita e della quale non riesce a stabilire l’identità: «Passo in rassegna le possibilità un’altra volta. Forse è mia figlia morta. O forse lei è me o una mia antenata. Forse la bambina è semplicemente una metafora di ciò che perdiamo o ciò che creiamo. O forse la bambina è solo una bambina, immaginaria, generata dalla mente di una donna persa nello spazio tra le cose».

Quale che sia la risposta ultima, partire, andare nelle zone di guerra e ritrovarla sarà l’unica via per consentire alla scrittrice di uscire dal bianco nel quale è precipitata e tornare a vivere: se ne incaricheranno una poetessa e una performer che intraprendono nella seconda metà del romanzo un viaggio per raggiungere la Russia, affrontando una serie di pericoli tanto reali quanto elusive – e persino avvolte in un alone quasi mitico – sono le notizie di cui dispongono.

Situato cronologicamente tra gli altri due romanzi di Yuknavitch già usciti in Italia – Dora, una rilettura romanzata di uno dei casi clinici più famosi di Sigmund Freud, e Il libro di Joan, riproposizione in chiave fantascientifica e distopica del personaggio di Giovanna D’Arco, Lasciarsi cadere è collegato a filo doppio alla Cronologia dell’acqua, che lo precede di quattro anni. Se nell’incipit del memoir Yuknavitch raccontava «il giorno in cui mia figlia nacque morta» trasmettendo un senso di corporeità bruciante che, nelle sue diverse declinazioni, costituiva forse il vero leitmotiv di quel libro traversato da una costante commistione tra fisicità, umori e sesso da una parte, e ricerca intellettuale e scoperta della scrittura dall’altra, in Lasciarsi cadere la figlia morta torna, incarnata in una bambina che ha conosciuto prestissimo gli orrori della vita e ha imparato a tradurli in arte. I personaggi la cercano, si struggono per la sua assenza, inventano un futuro per lei; e, tutti, sono funzioni che ruotano attorno alla scrittura o all’invenzione artistica (il fratello della scrittrice fa lo sceneggiatore, il marito è un regista, le tre donne cui è legata sono una poetessa, una fotografa, una performer). Il romanzo procede in modo rapsodico, inseguendo i movimenti dell’animo anziché la logica o la successione temporale, eppure non si fa mai astratto, anzi si rapprende in scene di una violenza e di una brutalità che non possono lasciare indifferenti, dove sono il sangue e altri umori a imporre la propria presenza, più ancora degli individui.