Nel Pnrr che ogni giorno perde pezzi rischia di saltare il più prezioso, quello dedicato alla salute. È tra i capitoli più in ritardo e ora il governo vorrebbe stralciarne una parte dal Pnrr. In particolare, è in bilico la riforma della sanità territoriale, cioè la medicina di base, gli ambulatori per la diagnostica, l’assistenza domiciliare.

È stata la pandemia a mostrarne le fragilità e a rivelarne l’importanza, con una popolazione che invecchia e con i pronto soccorso oberati dai codici bianchi e verdi. Da quando si è insediato il nuovo governo, il tema sembra però uscito dai radar. Se ne parla solo per annunciare passi indietro. In aprile lo ha fatto il ministro Raffaele Fitto, che ha la regia del Pnrr: «Aver inserito gli ospedali di comunità all’interno del Pnrr è stato un errore», ha detto riferendosi alle piccole strutture di quartiere previste dal Piano per i ricoveri meno gravi. Il problema non è trovare i soldi per costruirli: nel Pnrr ce ne sono a sufficienza. Quando l’Ue ha approvato la riforma della sanità territoriale, tuttavia, ha incassato anche l’impegno a reperire il personale necessario.

Ma aumentare il fondo sanitario nazionale e rimuovere i tetti di spesa imposti alle Regioni è impossibile per un governo che in economia punta tutto sulla flat tax. Il ministro della salute Schillaci ha provato a imporre una narrazione diversa: «Nel 2025 il Fondo sanitario nazionale crescerà di circa 9 miliardi di euro in più rispetto al 2021» (+7%) ha annunciato lunedì intervenendo all’Università Cattolica di Roma, «possiamo ritenere definitivamente conclusa l’era del definanziamento».

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È una mezza bugia perché l’aumento è solo nominale. In termini reali, basta un anno di inflazione (all’8% nel 2022) per assorbirlo. La spesa sanitaria pubblica crescerà più lentamente anche del Pil, di cui rappresenterà il 6,2% nel 2025 contro il 6,7% nel 2021.

L’ultimo rapporto dell’Agenas ha messo nero su bianco i ritardi quasi incolmabili accumulati dal governo a partire dalle «case di comunità», i nuovi presidi di prossimità in cui riunire medicina di base e diagnostica per accorciare le liste d’attesa. E in cui i dottori sarebbero affiancati dagli assistenti sociali, perché patologie e dipendenze originano molto spesso dal disagio sociale ed economico. Secondo il rapporto, però, delle 1430 case di comunità previste dal Pnrr quelle attive sono 122, l’8%. Sono localizzate soprattutto in Emilia-Romagna e, soprattutto, esistono già da anni, sotto il nome di «Case della salute».

Nel resto del paese in due anni non si è fatto nulla. Tra le grandi regioni, quella più in ritardo è il Lazio, che pure ha individuato da tempo le sedi fisiche delle sue 135 «Case», nessuna delle quali è attiva. Non è indietro solo l’edilizia sanitaria, ma anche la riorganizzazione del personale. Entro il 2025 nelle case di comunità i medici di famiglia dovranno trasferire almeno parte della loro attività di studio. Ma il principale sindacato dei medici, la Fimmg, difende a spada tratta la natura libero-professionista della medicina generale e spalleggia la controriforma di Meloni. In alto mare anche la prevista integrazione tra servizi sociali in capo ai Comuni e quelli sanitari a gestione regionale. «Finora non è stato fatto alcun passo avanti» spiega al manifesto un dirigente dell’assessorato alle politiche sociali di Roma.

Senza la volontà politica di investire in sanità, molti degli impegni presi rischiano ora di saltare dopo la revisione del piano che il governo intende presentare a Bruxelles. Ieri il Sole-24 Ore ha rivelato l’intenzione del governo di depennare dal Pnrr 309 delle 1430 case di comunità: sono quelle previste in strutture ancora da costruire – le altre saranno ospitate da edifici già esistenti – e tutti sanno che non saranno consegnate nei tempi promessi all’Ue. Toglierle dal Pnrr vorrebbe dire risparmiarsi qualche sanzione ma anche rinunciare al finanziamento. Perciò, come la volpe con l’uva, Meloni in persona ha iniziato a bombardare la riforma della sanità territoriale definendo le case di comunità «cattedrali nel deserto». «Quelle del Presidente del Consiglio sono affermazioni che la medicina generale sottoscrive in pieno» ha garantito il segretario Fimmg Silvestro Scotti.

Il piano B è già pronto e per scoprirlo basta leggere tra le righe del curriculum di chi se ne sta occupando. Cioè il sottosegretario alla salute e responsabile sanità di Fdi Marcello Gemmato, farmacista di professione, e il responsabile sanità di Fi Andrea Mandelli, casualmente anche presidente degli Ordini dei Farmacisti. Al loro settore di riferimento hanno già portato 150 milioni di «remunerazione aggiuntiva» per le farmacie infilati nell’ultima finanziaria. Ma adesso puntano a rimpiazzare le case di comunità proprio con le farmacie. «Possono essere un anello di congiunzione fra la sanità centrale e quella periferica» ha detto Gemmato alla recente fiera Cosmofarma di Bologna.

L’obiettivo si chiama «farmacia dei servizi», che oltre ai farmaci offra anche visite e esami sfruttando la capillarità di una rete composta da 19 mila punti vendita – al 90% privati – sul modello utilizzato per i tamponi Covid. Le prestazioni offerte dai farmacisti sarebbero a carico dal bilancio statale con un’ulteriore espansione della sanità privata convenzionata. Ma in questo modo la promessa di una medicina integrata, capace di farsi carico del paziente e del suo contesto sociale, si allontanerebbe definitivamente.