Il nostro futuro legato alla sopravvivenza dei profughi
Intervento Il dibattito sull'accoglienza nel nostro Paese
Intervento Il dibattito sull'accoglienza nel nostro Paese
Il triangolo mi pare questo: c’è Isis (o Daesh, per meglio dire) da una parte, ci siamo noi dall’altra e c’è nel mezzo una massa di profughi; ai quali ultimi viene non di rado attribuito un ruolo sul quale è necessario spendere due parole, se non altro per evitare il cortocircuito cui ci tocca assistere nel miserabile dibattito pubblico che abbiamo davanti agli occhi.
Un fatto, tanto per cominciare, mi pare più sicuro degli altri: la stragrande maggioranza di quei profughi sta fuggendo dagli stessi fondamentalisti che mettono bombe in mezza Europa: il che dovrebbe caratterizzare noi europei e quella massa di disgraziati come soggetti che hanno in comune se non altro il nemico.
Questo, naturalmente, in sé e per sé dice poco: avere lo stesso avversario non implica automaticamente la disponibilità immediata di strumenti per combatterlo insieme. Senonché colpisce, e colpisce molto, non tanto il fatto che questa comunanza non si traduca in una strategia, quanto dover constatare come essa finisca per diventare un ulteriore, e inquietante, elemento di divisione: al punto da indurre un ragazzino in fuga dai suoi aguzzini a chiederci scusa, mediante apposito cartello, per le devastazioni che quegli stessi aguzzini compiono nelle nostre città.
Non aiutano, in questo contesto, le recenti decisioni europee sull’accoglienza ai rifugiati, che in buona sostanza consistono nel lavarsi le mani della questione appaltandola alla Turchia: non soltanto perché esse costituiscono una retromarcia epocale sul fronte dei principi fondanti dell’Unione, ma soprattutto perché finiscono per portare definitivamente a compimento quel cortocircuito, che invece a questo punto (un punto di quasi non ritorno) sarebbe cruciale scongiurare.
Non voglio addentrarmi nel livello tattico del problema, discettando su quanto, e in che modo, la dismissione di fatto dell’accoglienza ai rifugiati possa alimentare un generico sentimento anti-occidentale, ingrossando in tal modo le fila del terrorismo: si tratta di un’analisi scivolosa, controversa e tutto sommato marginale rispetto al cuore della questione.
Il punto, mi pare, è che siamo in guerra, come qualcuno continua a ripeterci credendo che la circostanza non ci sia ormai chiarissima: ed è evidente, senza neppure scomodare Sun Tsu, che per vincere le guerre occorre da un lato valorizzare al massimo le armi di cui si dispone, e dall’altro evitare di combattere sul terreno scelto dal nemico.
Ebbene, non credo che la nostra civiltà disponga di armi diverse rispetto a quelle che le hanno consentito, nei secoli, di diventare un modello vincente: quelle armi si chiamano libertà e stato di diritto. Delle quali, sarà bene precisarlo, l’accoglienza ai profughi non è che un corollario, una conseguenza, una declinazione.
Deporre quelle armi e decidere di scimmiottare i nostri nemici sul terreno del loro fondamentalismo, della loro attitudine ad imporre i propri principi con la forza, della loro propensione alla chiusura e all’esclusione, non è soltanto una scelta drammatica sul piano etico: ma anche, e soprattutto, un’idea strategicamente suicida; perché si tratta di un terreno sul quale loro sono infinitamente più forti di noi.
Disinnescare quel cortocircuito, nel quale il nemico comune finisce per creare conflitto anziché produrre coesione, diventa quindi una questione di vita o di morte: perché, che ci piaccia o no, la sopravvivenza di quei profughi e la nostra sono legate tra loro a filo doppio.
Prima ne prendiamo atto, meglio è per tutti.
Direzione Nazionale di Radicali Italiani
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