Nell’abbondanza di cose uscite su Morricone, ultimamente si direbbe anche sovrabbondanza, Ennio di Tornatore è certamente la testimonianza più esaltante: una sorta di visibilio di gran parte del cinema dalla seconda metà del Novecento, che si svolge intorno alla figura quasi fanciullesca – occhi sempre spalancati per lo stupore – del compositore.

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MA ANCHE la constatazione che le trame morriconiane non accompagnano semplicemente il film, le immagini, ma li creano letteralmente: risuona qui l’ingiunzione anti-bressoniana per cui probabilmente l’immagine, all’origine del tempo (ammesso si possa concepire un’origine e invece tutto non sia che un eterno intermezzo), nasce da un suono, da una nota che scocca, vibra e di lì, da quel ribollire di materia espressiva, si caglia in visione.
Anche al di là delle grandi colonne sonore, se si prende in considerazione il periodo posto tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, la musica di Morricone non appare come l’interpretazione ma proprio come l’invenzione di quegli anni, spiegabili per la loro gran parte attraverso il cinema di genere che ne incanalava, spesso in modo più eloquente del cinema d’autore, inquietudini, desideri, perversioni recondite. È proprio l’invenzione di tutto un immaginario – radicale, tra psichedelia e pulp, patinature e stridori, struggimenti e torbida carnalità –, quello degli anni Settanta: icone, spazi, dinamiche (nati appunto da note), che costituiscono la geografia e lo stile di tutto un decennio in balia dell’istinto a fare cinema, in abbondanza, anzi in sovrabbondanza, come sfogo di impulsi profondi, spuri, oscuri. Spesso quelle di Morricone erano partiture che andavano a elevare il senso prosaico di molti di questi film, come nel caso di Quando l’amore è sensualità di Vittorio De Sisti, uscito nel 1973, reso più allusivo, ambiguo, proprio dagli arrangiamenti di Morricone che insinuano una marezzatura d’inquietudine nella carne del film, che è evidentemente carne da macelleria: la donna-prosciutto o donna-quarto-di-bue sanguinante o da far sanguinare da una parte, e dall’altra l’uomo-istrione, grossolano macellaio, officiante il rito della sessualità, come nella scena del coito tra Antonio (Gianni Macchia) e la prostituta minorenne, consumato su un altare profano, cioè un tavolo da macello.

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IL BRANO Vie-ni per il film di De Sisti apre il doppio Lp dedicato alle colonne sonore più nascoste di Morricone, tutte relative agli anni Settanta, Morricone segreto, già uscito nel 2020 e riproposto ora in un cofanetto celebrativo (con cartella filatelica e altri feticci) curato dalle Poste Italiane, che propone – in registrazioni abbastanza nitide – qualche brano rimasto inedito, qualcun altro mai inciso prima su vinile e altri comunque appartenenti a una produzione periferica. A ogni modo si tratta di un palinsesto sonoro – a forza di arrangiamenti slargati, spesso dissonanti, striati di un che di percussivo, altre volte ammiccante, elastico – che scandisce i tempi e gli spazi, tutta l’atmosfera di un decennio all’insegna del «genere», tanto da essere stato, si sa, una delle maggiori fonti di ispirazione per registi come Tarantino. Per inciso un film come Stark System (1980) di Volontè, di cui il Morricone segreto riprende alcuni brani, ad esempio il tango sbilenco di Fantasmi grotteschi, ricorda il sodalizio tra Rich Dalton e Cliff Booth di C’era una volta a…Hollywood. E poi c’è Un uomo da rispettare di Michele Lupo (che il disco ripercorre attraverso due brani), in cui la musica di Morricone è il contrappunto o altrimenti l’innesco di certo funambolismo incarnato da Giuliano Gemma, il quale poi lo trasla su strada, in una scena eccezionale, un inseguimento automobilistico per le vie di Amburgo, vera e propria coreografia di caccavelle, con le auto strombazzanti che si fracassano, quasi copulano squassando le loro aperture ed espellendo secrezioni, oli, liquami, fino a sbriciolarsi contro un ponte levatoio.

CORPI, anche nelle metafore di ferraglie deflorate; coreografie essudanti sfrenata malizia, nudità: un motivo ricorrente in questo disco e direi nel costume degli anni Settanta, è quello del ballo: il ballo torbido, lubrico, nella perenne penombra di appartamenti o di locali notturni; la sessualità promiscua che irrompeva all’improvviso nei ritrovi serali. In Morricone segreto ci sono scene di balli e di festini, spogliarelli intrisi di una sensualità finanche morbosa: da Nascosta nell’ombra (brano tratto da Quando l’amore è sensualità) che musica la festa in cui la pudica Eminia (Agostina Belli) assisteva a danze lascive e ad avvisaglie d’orge; a Patrizia (da Incontro, film molto interessante di Piero Schivazappa, perfetta antitesi del maschilismo del film di De Sisti, in cui la donna è dipinta come indipendente, anche per certi versi sovraordinata rispetto all’uomo: e siamo nel 1971) che vede intento a ballare Massimo Ranieri; fino al film di Lizzani, Storie di vita e di malavita di cui però nel disco è presente il motivo iniziale, sui titoli di testa, con una Milano cupa, piovosa, antifona straordinaria dell’atmosfera di violenza senza rimedio, di squallore che percorrerà tutto il film. E così via: un repertorio di arrangiamenti spesso psichedelici, o prog, con venature funky o blues: arrangiamenti non di motivi musicali, o non solo, ma di luoghi, figure, situazioni.