È provvisorio ma non troppo, il nuovo gruppo dirigente di Penguin Random House, la cui composizione è stata annunciata nei giorni scorsi da Nihar Malaviya, amministratore delegato del maggior gruppo editoriale degli Stati Uniti (di proprietà, va ricordato, del gigante tedesco Bertelsmann, leader nel mondo per l’editoria non scolastica). Anche se Malaviya ha formalmente mantenuto il suo ruolo ad interim, sono infatti queste stesse nomine a testimoniare «la sua intenzione di restare ancora per un po’ al proprio posto», come ha scritto Elizabeth A. Harris sul New York Times.

In realtà si tratta esclusivamente di movimenti interni, «promozioni di dirigenti di lunga data – nota Harris – più che una rivoluzione della leadership dall’esterno», che probabilmente sarebbe stata complicata da gestire, dopo gli scossoni che hanno colpito Penguin Random House negli ultimi mesi. Alla mancata acquisizione di Simon & Schuster, bloccata nell’ottobre 2022 dall’antitrust statunitense e accompagnata da una penale di 200 milioni di dollari, è infatti seguita una catena di dimissioni: tra dicembre e febbraio se ne sono andati Markus Dohle, amministratore delegato generale dal 2013, Gina Centrello, presidente del gruppo Random House, e infine Madeline McIntosh, ceo del conglomerato per l’America, il cui posto rimane tuttora vacante.

Inutile girarci intorno, non sta bene il «granchione» più grande di tutti, se vogliamo prendere in prestito l’immagine usata da Gian Arturo Ferrari nel suo Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio 2022) per indicare la progressiva cannibalizzazione avvenuta nel mondo del libro negli ultimi decenni – e di cui lo stesso Ferrari è stato in Italia uno dei principali attori. Ma a non stare bene è il mondo del libro nel suo complesso, viene da dire dopo avere letto At Random, il bellissimo e lunghissimo reportage di Christian Lorentzen uscito su Harper’s e dedicato proprio alle udienze in cui è stata dibattuta la fusione fra Penguin Random House e Simon & Schuster e alle quali ha preso parte anche Stephen King, dichiarandosi contrario al merger.

Dal testo di Lorentzen citiamo qui solo un brano che ci pare quantomai istruttivo sui movimenti dei «granchioni»: «Nell’immaginario popolare, i casi di antitrust sono affrontati dal governo per conto dei consumatori, e questo è stato, in effetti, l’approccio per varie generazioni. Ma nell’arringa iniziale il rappresentante del Dipartimento di Giustizia John Read ha specificato che qui la parte danneggiata non erano i consumatori di libri, noti anche come lettori. La causa intentata dal governo Usa era una difesa contro il monopsonio, perseguita per conto dei produttori di manoscritti, noti anche come autori (ndr: per chi non lo sapesse, «il monopsonio è una particolare forma di mercato caratterizzata dalla presenza di un solo acquirente a fronte di una pluralità di venditori», vedi Wikipedia). E non degli autori in generale, ma degli autori di “top seller anticipati”, cioè i libri i cui autori ricevono un anticipo sulle royalties pari o superiore a 250mila dollari. Read ha ammesso che i top seller anticipati sono solo il 2% dei libri pubblicati ogni anno, ma ha sostenuto che rappresentano più del 70% di quanto Penguin Random House e Simon & Schuster spendono per gli anticipi». Insomma, «il Dipartimento di Giustizia si è schierato a favore del 2% degli autori, perché è lì che si fanno i soldi».

Ed ecco spiegata in poche parole la corsa al best seller che ha caratterizzato l’editoria mondiale negli ultimi decenni. E i romanzi letterari? «Non sono commerciali, però possono vincere un premio», ha detto qualcuno (non nominato da Lorentzen) durante le udienze. Qualche speranza rimane.