Steve Jobs non era un “mago” (The Economist), non era il “filosofo del XX secolo” (Der Spiegel) e non era neppure un “genio” (tutti i quotidiani italiani). Era un uomo fortunato nelle sue amicizie di lavoro e soprattutto un innovatore del marketing, capace di trasformare un’azienda produttrice di computer nell’oggetto di una vera e propria venerazione. Questo articolo, per esempio, è scritto su un iMac (e dove, sennò?).

Partiamo dal 1976 e dal mito del primo personal computer costruito in garage: in realtà la maggior parte del lavoro lo fece il suo amico e co-fondatore della Apple, Steve Wozniak nel suo ufficio alla Hewlett-Packard. La leggenda del garage, puntualmente ripetuta per anni fu il primo mattone nella costruzione del personaggio.

Il secondo amico e collaboratore che Jobs ebbe la fortuna di incontrare fu Jonathan Ive, lo straordinario designer di tutti i prodotti di successo Apple. Ive e Jobs hanno sempre riconosciuto il loro debito nei confronti della Braun, la società tedesca produttrice di radio e registratori negli anni Sessanta. Nato a Londra nel 1967, Ive fu attratto dall’elegante semplicità dei prodotti Braun fin da quando i suoi genitori comprarono uno spremiagrumi.

Molto prima che la controcultura californiana portasse al successo il libretto di Fritz Schumacher Piccolo è bello il principe dei designer tedeschi Dieter Rams amava descrivere il suo con l’espressione “Meglio meno ma meglio”. Nel 1955 Rams iniziò a creare prodotti per la Braun nello spirito del Bauhaus: minimalismo e funzionalismo. Ive e Jobs seguirono le orme del maestro: dal Macintosh all’iPad e all’iPhone, la “purezza” della forma è rimasta al centro della filosofia Apple.
Nello stesso tempo Jobs capiva la controcultura californiana in cui viveva e il suo forsennato individualismo, facilmente sfruttabile a fini commerciali. All’inizio degli anni Ottanta, dopo l’elezione di Ronald Reagan, gli ex figli dei fiori erano in fibrillazione: a tutti loro la Apple fece la promessa che comprando un Macintosh avrebbero potuto cambiare il mondo. Desideravano una tecnologia “piccola e bella” per cullarsi nelle loro illusioni e Jobs gliela diede. Il primo Macintosh fu come una scatola di cioccolatini per una nazione confusa e spaventata dalla tecnologia: «L’America, un paese che ama curare le proprie ferite con lo shopping, non poteva resistere alla tentazione» ha scritto Evgeni Morozov.

Il terzo fattore che ha trasformato una piccola società nella corporation più ricca del mondo, la prima a superare i 2.000 miliardi di dollari di valore borsistico, è stata la globalizzazione, un eufemismo per descrivere lo spietato sfruttamento degli operai cinesi. Sì, le fortune della Apple erano legate alla qualità superiore del suo design ma i megaprofitti arrivarono grazie agli stabilimenti Foxconn a Shenzen, dove a tutt’oggi viene realizzato il montaggio della grande maggioranza dei prodotti dell’azienda di Cupertino. Il valore di un iPad è costituito per il 31% dalle materie prime, per un altro 30% dai profitti Apple e per appena l’1,6% dal lavoro in Cina per componenti e assemblaggio.

Lo straordinario successo della Apple era dovuto a questo, insieme alla caparbia volontà di Steve Jobs di evitare gli errori compiuti dalle altre aziende tecnologiche, in particolare la rinuncia a innovare costantemente. Negli ultimi anni, in effetti, non ha offerto prodotti nuovi ma solo versioni migliorate dei vecchi. Adesso è arrivata perfino il sindacato nei suoi negozi: è diventata, insomma, un’azienda normale. Quanto durerà?