A chi oggi segue il dibattito sulle riforme istituzionali conservando un po’ di memoria delle vicende politiche italiane, sembra di rivivere i primi anni Novanta. Anche trent’anni fa, infatti, a un’offensiva conservatrice che proponeva il presidenzialismo come soluzione ai mali della Repubblica, rispondevano dalla parte dei progressisti dosi crescenti di accettazione del verticismo e della formula salvifica dell’elezione diretta. La chiamassero premierato, cancellierato o più schiettamente «premier forte», la proposta sfondò le linee progressiste con la motivazione che non bisognava «lasciare il presidenzialismo alla destra», per citare uno dei campioni di quella stagione di immaginaria palingenesi istituzionale.

Naturalmente non era neanche quella la prima volta, le vibes presidenzialiste dovendosi far risalire, com’è noto, almeno al famoso articolo di Craxi sull’Avanti nel settembre del 1979 e all’idea della «Grande riforma». Ma anche a causa del ritorno dagli Stati uniti alla cattedra fiorentina e agli articoli di fondo del battente Giovanni Sartori, è nel corso di tutti gli anni Novanta che la svolta presidenzialista si fa spazio, con la decisiva collaborazione degli eredi del Pci e della Dc. Più dei primi che dei secondi.

NON SI PUÒ DIRE che sia andata a finire bene, anche se fortunatamente conserviamo la nostra forma di governo parlamentare, semplicemente perché finita non è. Lo prova il riemergere delle iniziative in favore del presidenzialismo. Ma proprio guardando alle attuali mosse della maggioranza e della ministra per le riforme – una che ha immaginato di farsi eleggere presidente della Repubblica blindando i suoi voti, per dire quanto creda nel dialogo sulle scelte importanti – non bisogna dimenticare a cosa condusse, alla fine degli anni Novanta, la disponibilità dei progressisti ad abbracciare l’elezione diretta.

Di apertura in apertura, si precipitò in un rocambolesco voto della commissione bicamerale per le riforme che, tra le due opzioni messe sul tavolo dal relatore Salvi – premierato o semipresidenzialismo, ma con l’intenzione di far prevalere la prima – fece vincere a sorpresa la soluzione presidenziale. Il movimentismo della Lega e le divisioni interne tra i progressisti ebbero la meglio sul tatticismo di D’Alema («la volpe del Tavoliere», in quegli anni, per Pintor).

E così la ministra delle riforme Casellati, quando la settimana scorsa ha presentato le sue linee programmatiche in parlamento, ha potuto ricordare ai senatori del Pd che sul primo progetto di riforma semipresidenziale approvato con un voto parlamentare c’era la firma di uno della loro parte. Avrebbe anche potuto aggiungere, per stare a tempi più recenti, che diversi leader del centrosinistra e segretari del Pd sono stati o sono ancora semipresidenzialisti, da Prodi a Veltroni a Renzi.

E che più volte il Pd ha presentato progetti di legge per il semipresidenzialismo. O che diversi parlamentari del Pd hanno promosso, nella scorsa legislatura, l’intergruppo per il semipresidenzialismo. Una sorta di lobby presidenzialista che ha portato fortuna solo agli aderenti di centrodestra. Nessuno del Pd, infatti, è stato rieletto. Mentre tra gli aderenti dei partiti di centrodestra, dieci sono tornati tra camera e senato, più forti anche del taglio dei parlamentari. E adesso sono tutti (tranne uno) gallonati: 4 fanno parte degli uffici di presidenza delle camere, 3 sono ministri, uno è capogruppo e una presidente di commissione. Il che aiuta a capire qual è lo spazio che occupa il presidenzialismo – semi o intero – nella politica italiana: lo spazio di un’ideologia.

IL PRESIDENZIALISMO meloniano vive infatti solo nelle interviste e nei post sui social. Fratelli d’Italia non ha nemmeno riproposto i testi depositati nella scorsa legislatura per introdurre l’elezione diretta del presidente della Repubblica, il più noto dei quali era firmato proprio da Giorgia Meloni. A dispetto di quanto si potrebbe credere, vista l’enfasi che la presidente del Consiglio pone sulla riforma costituzionale, c’è un solo disegno di legge presentato in questa legislatura che riguarda la modifica delle istituzioni. Ed è del Pd, che all’opposizione è tornato parlamentarista – ma per un parlamentarismo «razionalizzato», come dice la relazione al disegno di legge, che ripropone per intero un testo depositato sul finire della scorsa legislatura.

Tutte le altre proposte di revisione costituzionale depositate adesso in parlamento – e sono tante, 68 – riguardano questioni settoriali, come la competenza delle regioni a statuto speciale, o la giustizia. Anzi, le proposte per la separazione delle carriere di giudici e pm sono le uniche che sono uscite dai cassetti per muover mezzo passo in commissione. Ma anche loro saranno messe da parte quando arriverà l’annunciatissimo testo del ministro della giustizia Nordio.

Il presidenzialismo, adesso, per Meloni è soprattutto un alibi: ha la maggioranza assoluta in parlamento, ne fa quel che vuole (vedi le nomine), eppure dice che senza la riforma costituzionale le mancano gli strumenti per decidere. Eppure il testo lo vedremo forse in estate, non prima. Lo ha detto Casellati, giurando però di avere già le idee chiare. Per esempio che l’elezione diretta del presidente della Repubblica, o del premier, «non mette in discussione la figura e il ruolo di garanzia del capo dello Stato». Come no. Vedi Macron.