Il libro: Diaz, quella notte di «macelleria messicana»
Erano andati alla Diaz perché la pioggia aveva reso impraticabili i campeggi utilizzati in quei giorni dai manifestanti. A loro la scuola, accanto alla sede ufficiale del Genoa Social Forum, […]
Erano andati alla Diaz perché la pioggia aveva reso impraticabili i campeggi utilizzati in quei giorni dai manifestanti. A loro la scuola, accanto alla sede ufficiale del Genoa Social Forum, […]
Erano andati alla Diaz perché la pioggia aveva reso impraticabili i campeggi utilizzati in quei giorni dai manifestanti. A loro la scuola, accanto alla sede ufficiale del Genoa Social Forum, sembrava «il posto più tranquillo per passare la notte».
Non era così. Altri, infatti, erano preoccupati, tesi. Specie alla Pascoli dove c’erano militanti più accorti, mediattivisti e giornalisti, l’europarlamentare Luisa Morgantini e fino a pochi minuti prima anche l’avvocato Laura Tartarini, genovese, vicina ai centri sociali e ai movimenti antagonisti e in seguito vicepresidente del consiglio comunale del capoluogo ligure; già allora interlocutrice diretta della questura e della Digos.
Sia alla Pascoli che alla Diaz c’erano persone che in quei giorni erano state semplicemente travolte dagli avvenimenti, altre che avevano partecipato alle varie fasi degli scontri, specie quelli del 20 luglio che avevano coinvolto diverse migliaia di persone. Molti sapevano che erano in corso controlli della polizia, uno l’avevano fatto lì vicino in via Trento, in un bar dove un gruppetto era andato a mangiare e a bere qualcosa. Le voci di perquisizioni, tra i giornalisti, si rincorrevano da ore in un clima di tensione. Anche chi non aveva niente da nascondere temeva la polizia, perché assisteva da due giorni a violenze ingiustificate da parte di uomini in divisa.
Eppure, le manifestazioni contro il G8 erano finite. Quello che non doveva succedere era già successo. Giravano, non solo fra i no global, le voci più incredibili: altri morti, persone che non si trovavano più. Si compilavano inquietanti elenchi di «scomparsi», che poi erano quasi tutti a Bolzaneto e non avevano potuto comunicare. Gli scontri erano largamente previsti, il movimento era sceso in piazza con decine di avvocati, medici e infermieri muniti di pettorina, ma nessuno alla vigilia poteva immaginare una simile esplosione di violenza.
A mezzanotte, quando arrivò la polizia, gran parte degli ospiti della Diaz stava andando a letto. Erano nei sacchi a pelo o si lavavano i denti. Chi dormiva fu svegliato. Qualcuno, dalle finestre ai piani superiori, gridò ai poliziotti: «andate via», «non entrate». Anche dall’altra scuola urlavano di non entrare: «Vi stiamo riprendendo, il mondo vi guarda». Sui poliziotti piovve dall’alto qualche oggetto ma non il «fitto lancio» che scrissero poi nei verbali. Non certo il «grosso maglio da carpentiere» di cui scrisse Canterini e parlò Mortola: nessun altro confermò di averlo visto e non c’è n’é traccia delle immagini girate dalla telecamera che in quel momento riprendeva l’intero cortile. (…) Un altro vide volare una scrivania, ma nei filmati non si vede neanche quella.
Una o più persone chiusero il cancello e sistemarono una panca, forse un paio di sedie, davanti al portoncino di legno. Altri dissero che era una sciocchezza, fecero rimostranze. Nessuno indicò mai chi fosse stato a chiudere.
L’irruzione, vista da fuori, fu talmente spaventosa che diversi abitanti della zona, presi anche loro dal panico, diedero l’allarme al 118 e perfino al 113. Molti sentivano i rumori, i colpi, le grida disperate, l’elicottero, ma non vedevano cosa stesse succedendo. Le telefonate sono registrate, uno diceva: «Pronto, polizia? Qui in via Cesare Battisti stanno attaccando i ragazzi!». L’operatrice non sapeva cosa rispondere: «Sì lo sappiamo, grazie». Qualche minuto dopo un’altra chiamate dello stesso tipo e la poliziotta, sempre più imbarazzata: «Siamo già lì, signora, non si preoccupi».
(…) La polizia fornì con grave ritardo un elenco di 453 uomini (e donne) che parteciparono alle varie fasi dell’operazione, compresi i 150 carabinieri che rimasero sempre all’esterno dell’edificio come del resto un gran numero di poliziotti. È però un elenco incompleto. Furono riconosciuti e individuati molti altri agenti che non figuravano nella lista. Erano diverse decine, compresi i 30 del reparto mobile di Bologna che si distinse per interventi piuttosto violenti al G8 e altrove, anche con strascichi penali significativi; più una ventina del reparto mobile di Roma, estranei al Settimo nucleo. Uno degli uomini fuori dall’elenco è Pietro Troiani, il vicequestore che mezz’ora dopo l’irruzione fece portare le molotov nel cortile della Diaz.
(…) Il video girato dalla Pascoli mostra decine di agenti che si accalcano sull’ingresso. Molti sono in tuta da ordine pubblico scura, priva cioè del tradizionale cinturone bianco, con i caschi azzurri opachi mentre gli altri sono più lucidi: quelli vestiti così appartengono al Settimo nucleo. Erano gli unici, nella polizia, a usare il tonfa. Il supermanganello con l’impugnatura laterale è in policarbonato molto più rigido del comune sfollagente e diventa un’arma micidiale se utilizzato «a martello». Dall’alto verso il basso, o peggio rovesciato, per picchiare con il manico. Fournier spiegò, durante indagini e processo, che quel manganello può uccidere. Quando i pm fecero sequestrare i tonfa della Diaz, uno su dieci risultava ancora sporco di sangue.
[do action=”citazione”]I pestaggi durarono 10 minuti. Sul luogo c’erano 300 poliziotti. Nessuno ha fatto un nome[/do]
Nel filmato si vede un agente del Settimo che spacca i vetri di una finestra al pian terreno, evidentemente per terrorizzare le persone all’interno. È ancora uno del Settimo che forza il portoncino centrale, quindi sposta la panca sistemata a mo’ di barricata, scavalca qualcos’altro ed entra. Passa il secondo, poi il terzo. Ci sono anche poliziotti con la cintura bianca, altri in borghese con la scritta «polizia» sulla pettorina, altri ancora con la divisa «atlantica». «Una macedonia di polizia», disse Canterini. «La notte del volontariato», ironizzò in aula l’avv. Silvio Romanelli. (…)
Una volta dentro, i poliziotti picchiarono selvaggiamente dal piano terra fino al quarto piano. Picchiarono gente che nella palestra, al pian terreno, li accolse con le mani alzate.
Dicevano «peace» e «no violence», erano terrorizzati e furono aggrediti, abbattuti da manganellate e calci. «Come se fosse una carica», disse una di loro. Dal lato opposto della palestra Lorenzo Guadagnucci, giornalista allora al Carlino e simpatizzante no global, fu pestato a freddo nel sacco a pelo. Cercava di proteggere una ragazza che era stata già colpita. Ebbe solo il tempo di chiedere «perché?». Nessuno lo sentiva. Aveva 37 anni, al momento dell’irruzione si era appena addormentato. Prima che lo aggredissero ebbe modo di assistere al pestaggio delle persone di fronte.
(…) Gli agenti sembravano impazziti, urlavano «Bastardi», «Morirete», «Nessuno sa che siete qui», «Vi siete divertiti, eh? Adesso vi ammazziamo». E ancora: «Froci», «zecche». Alle ragazze strillavano: «Brutta troia» e «puttana». Alcuni prelevarono «trofei», ciocche di capelli tagliate sul momento: lo raccontarono almeno cinque testimoni. Un ragazzo ebbe una crisi epilettica. Fu ritrovato materiale fecale perché qualcun altro non riuscì a trattenere la paura. Al primo piano si fecero trovare ai due lati del corridoio, per dimostrare le loro intenzioni pacifiche. Furono bastonati e presi a calci uno per uno, subirono diverse ondate di pestaggi. Almeno due feriti rischiarono la vita per lesioni al cranio, altri riportarono fratture delle braccia, delle gambe, del costato. Thomas Daniel Albrecht, all’epoca 21enne, violoncellista a Berlino, (…) raccontò che i poliziotti li pestarono «senza fretta». (…)
Non sapremo mai chi fece cosa. Non sapremo mai chi spezzò un braccio e una gamba ad Arnaldo Cestaro, allora sessantaduenne, arrivato dal Vicentino solo soletto per manifestare contro gli otto «grandi» e rimasto lì quella notte perché l’indomani voleva portare i fiori sulla tomba della figlia di una sua vicina. Fu uno dei primi a cadere nella palestra al pian terreno. Dice che dormiva, pensò che ad aggredirli fosse chissà quale black bloc «e invece era – raccontò ai giudici – la nostra polizia, quella che ci dovrebbe proteggere». (…)
Non tutti i poliziotti picchiarono e sputarono. Alcuni cercarono di fermare i colleghi (…). Nessun agente, però, seppe indicare i colleghi che infierivano su gente indifesa. Neanche uno solo.
- Dal libro “Diaz, processo alla polizia“, Alessandro Mantovani, Fandango 2011
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