Accettando la proposta avanzata da Simona Bonsignori in Interrogare le nostre vite, ci siamo incontrate virtualmente per parlare di come sta cambiando il lavoro di cura inteso in senso lato. L’abbiamo fatto con particolare riferimento alle nostre esperienze, che includono il lavoro intellettuale, e abbiamo preso alla lettera l’esigenza di incontri tra frammenti di pensieri nostri e altrui, organizzando i nostri scambi per parole chiave.

 

PASSATO-PRESENTE (Teresa)

I molti richiami a situazioni del passato nel dibattito pubblico – le guerre, la Grande depressione, le epidemie – mi suonano stonati.

All’inizio della Prima guerra mondiale i giornali pubblicavano le foto dei caduti. Smisero quando diventarono troppi. Oggi i morti da ricordare si scelgono, almeno così è successo nelle prime settimane: hanno spazio quelli più rappresentativi. Provocatoria e scioccante, invece, la prima pagina del New York Times del 24 maggio: «Incalculable loss» è il titolo, a seguire i nomi di 1.000 morti a causa del Covid. L’illustratore Steve Brodnerm ha lanciato una forma di protesta: ha chiesto agli artisti di disegnare, su quella prima pagina, Trump che gioca a golf. L’artista Marcel Dzama ha contribuito con una illustrazione ad acquerello, avendo cura di garantire che sotto l’illustrazione i nomi rimanessero leggibili.

Chissà se in futuro ci sarà chi si prenderà la briga di contarli i morti di oggi, e se sarà possibile farlo. Pare che non sia facile, sia a causa delle modalità di classificazione della causa di morte sia di quelle di esecuzione dei test di positività al virus, che vengono effettuati in ospedale ma difficilmente se il decesso avviene a casa.

Si è parlato molto anche della Grande depressione, che in passato è stata spesso rappresentata: l’abbiamo conosciuta attraverso la letteratura, il cinema, la pittura. Non è stato così, a parte poche eccellenti eccezioni, per la crisi del 2008.

Fra i molti richiami al passato ho trovato più sensata la pubblicazione, da parte della Smithsonian Institution, dei diari redatti durante l’influenza Spagnola, e più in generale le molte pubblicazioni su quell’epidemia, per lungo tempo dimenticata. Proprio per questo motivo, ha notato Laura Spinney, il ricordo dell’influenza Spagnola «è personale, non collettivo. Non è quello di una tragedia storica, ma è fatto di milioni di silenziose tragedie private». Molto estesa nello spazio ma circoscritta nel tempo, costituisce un evento per il quale il racconto lineare non funziona, perciò Terence Ranger, storico dell’Africa, suggerisce di farlo così come le donne dell’Africa meridionale elaborano i momenti importanti nella vita della loro comunità: «Prima li descrivono, poi ci girano intorno ritornandovi continuamente, ampliandoli e inserendoli nei ricordi del passato e nelle anticipazioni del futuro», dedicando, quindi, molto spazio alla descrizione del contesto.

Mi chiedo quante donne, quante generazioni di donne, nel giro di anni che va dalla Prima alla Seconda guerra mondiale, passando per l’influenza Spagnola e il fascismo, abbiano dovuto destinare una parte importante della loro vita alla «celebrazione» del lutto.

 

LAVORO DEL LUTTO (Luisa)

L’esperienza della pandemia mi ha fatto pensare che il lavoro di storiche comprenda una prestazione vicina al lavorio necessario per interiorizzare una persona cara e oggetti o luoghi perduti. O anche un cane o un gatto o un coniglio, per fare esempi tratti da mie esperienze. L’elaborazione perdura in varie forme attraverso gli anni, sembra conchiusa e invece bisogna più volte riprenderla e aggiornarla, come avviene sia nella storiografia sia nella vita.

Nella vita, esiste una tradizione di genere a questo proposito. Alle donne spettava, per molto tempo e in molte società, il lavoro del lutto anche come cura del corpo morto. Innanzitutto come cura del proprio corpo dopo la morte. Le mie due bisnonne, mia nonna, le sue due sorelle – mie prozie – tenevano pronto un pacchetto degli abiti e monili che volevano indossare nella bara. Un kit della morte, nelle parole di Susan Sontag.

Da ragazza, avevo partecipato dall’esterno ad alcune vestizioni, praticate da donne della famiglia più anziane e più esperte. Alcuni indumenti non si mettono, sono diventati inutili; le calze sì, per poter infilare le scarpe. Subito dopo il funerale noi parenti ci ritrovavamo nella casa della persona morta e il parente più vecchio diceva: «prendiamo un po’ di brodo». Le donne l’avevano già preparato e lo bevevamo insieme intorno al tavolo della cucina. Era una cura del commiato tra le persone vicine a chi se ne era andato. Donne erano anche, nella maggior parte dei casi, quelle che si prendevano cura della tomba, che veniva pulita e adornata regolarmente. Per mio nonno non era stato possibile, era morto in guerra di spagnola.

Prendersi cura del rapporto tra passato e presente, elaborare i lutti della memoria nel lavoro di storiche, forse ci permette di aggiornare la forza e le tradizioni di cura di quelle donne passate attraverso le guerre mondiali. Se è vero che Covid-19 ha appesantito e talvolta degradato il lavoro di cura delle donne nel mondo, tuttavia in certi momenti ci sembra di intravedere i germi di una trasformazione e nobilitazione di questo lavoro. Non lo intendo soltanto come un principio metodologico nella storia delle epidemie e pandemie, al contrario come un invito in senso più generale a cercare le tracce delle appartenenze di genere – a più generi, contestandone contemporaneamente i confini – grazie all’impegno di rovistare nel campo di tensione tra presente e passato, nelle scelte fatte, nelle narrazioni – come e quali – e con che tipo di consapevolezza dei molteplici modi, in varie epoche storiche, di vivere e riconoscere combinazioni di genere nuove, inaspettate, insperate.

 

CATASTROFE INTERIORE (Luisa)

A proposito dell’altro tema che menziona Teresa, il dibattito pubblico: si è anche discusso molto, e non solo tra esperti del settore, se le persone che avevano in corso un’esperienza psicoanalitica stessero «meglio» nel periodo più acuto del Covid, sentendosi «normali» grazie a un nuovo rapporto di consonanza tra individuo e collettivo. O forse si trattava dell’effetto di un’irruzione del principio di realtà, col virus che aggiorna Freud? Si diceva anche, da parte di psicoterapeuti e psicoanalisti, che diversi colleghi annaspavano, facevano fatica a pensare e prestare cure adeguate.

Abbiamo riscontrato di aver vissuto e stare ancora vivendo un continuo sommovimento emotivo, con i suoi picchi e i suoi crolli. Per associazione mi è tornata in mente la frase che mi aveva detto una collega storica il mattino dell’11 settembre 2001 a Berkeley, dove insegnavo per un semestre. Appena sveglia avevo acceso il televisore e visto il crollo delle due torri. Sembrava così irreale che d’impulso avevo chiamato la collega nella casa vicina: «Ah, questa catastrofe – mi aveva subito risposto – è lo specchio della mia catastrofe interiore!». Nei giorni e mesi successivi, la presa in cura decisiva era stata quella tra lei e me, come solidarietà che diventava punto di riferimento a qualcosa di reale.

Anche oggi sperimento una corrispondenza tra crollo del mondo e perdita del controllo almeno mentale su che cosa è realistico e che cosa non lo è. E le reti di parole che cerchiamo di tessere nell’esercitare un frequente controllo per assicurarci che ci siamo ancora, possono essere assimilate a un lavoro di cura reciproco. Spesso, nel mio caso, tra donne ma certo non solo (mai come oggi capisco che «donne» vuol dire di più che non le donne in carne e ossa). Mi sono chiesta, in un raro momento di ottimismo, se queste reti di parole permetteranno di fare qualche minuscolo passo per orientarci nello spazio sgombrato dalla catastrofe, verso nuovi modi di accettare le emozioni e il loro potenziale di cambiare il mondo. Nel lavoro di storiche già si è fatto molto per studiare emozioni, reti di varia natura, relazioni tra immaginari ed esperienze. Però non si sono fatti fino in fondo i conti con le differenze tra noi nell’approccio a queste tematiche, né ai rapporti tra soggetti portatori di diverse forme di soggettività e intersoggettività di genere. I dibattiti e le reazioni ai problemi della transomofobia lo dimostrano. Il femminismo è stato, oltre a molte altre cose, imparare modi di convivere civilmente nel conflitto – una lezione che sarebbe utile anche per il lavoro di storiche e i rapporti tra storiche.

 

PRIVAZIONE (Teresa)

All’inizio avevo pensato che avrei avuto più tempo per me e che avrei voluto impegnarlo guardando, con i miei strumenti, a quanto stava succedendo. Prendevo appunti su quello che le donne scrivevano e sul loro coinvolgimento nell’affrontare la pandemia: le ricercatrici precarie dello Spallanzani, che per prime hanno isolato il virus e le molte lavoratrici della sanità, le sindache, le ministre che devono prendere decisioni importanti: Interno, Trasporti, Scuola, non mi sembra che abbiamo mai avuto tante ministre in posti cruciali in un momento eccezionale. Poi questo interesse è venuto meno, mi auguro che in futuro qualcuno voglia guardare alla pandemia anche da questo punto di vista, ma in me era prevalso un sentimento che mi teneva lontana da un approccio di questo tipo. Nel periodo del confinamento è stato intenso il senso di catastrofe interiore, analogo a quello provato dall’amica di Luisa, facile da comunicare senza bisogno di giustificazioni: stare nel proprio guscio era condizione comune.

Non ho trovato consolazione negli strumenti che ho.

Sin dall’inizio della quarantena sono state sollecitate testimonianze. In un primo momento soprattutto da parte dei giornali, che hanno introdotto rubriche apposite. E poi archivi, biblioteche, associazioni di studiosi. Historic England ha invitato i britannici a contribuire a un progetto indirizzato a «registrare la storia»: una raccolta di fotografie concepite come una «capsula del tempo», che mostrerà alle generazioni future come le persone comuni hanno vissuto l’autoisolamento e il distanziamento sociale. «Storie del presente: quotidianità, lavoro, paure ed idee durante la quarantena» è, invece, il titolo di una campagna di raccolta di interviste – in videochiamata – dell’Associazione italiana di storia orale. Dal faccia a faccia reale a quello virtuale: chissà come studieranno queste interviste.

Mi lascia perplessa l’invito a costruire testimonianze per il futuro. Abbiamo abdicato a interrogarci sul presente ma speriamo di capirci qualcosa quando diventerà passato. Zadie Smith, con il piccolo libro che ha scritto nelle prime settimane di lockdown, esprime il presente. Si intitola Intimations perché è stato ispirato dalla lettura di Pensieri di Marco Aurelio, dai quali ha tratto «due preziosissimi spunti. Parlare con sé stessi può essere utile. E scrivere significa che qualcuno ci ascolta».