Il gratta e vinci della felicità
Vite d'azzardo Si conclude oggi l’esplorazione di un territorio dove i sogni di diserzione da una esistenza precaria alimentano la diffusione di lotterie e casinò. E i ricavi finiscono nelle casse delle imprese e rimpinguano quelle esangui degli Stati
Vite d'azzardo Si conclude oggi l’esplorazione di un territorio dove i sogni di diserzione da una esistenza precaria alimentano la diffusione di lotterie e casinò. E i ricavi finiscono nelle casse delle imprese e rimpinguano quelle esangui degli Stati
La lotteria viene da lontano scriverà nel 1851, in un suo libello dedicato all’Histoire de la loterie, Alexandre Dumas figlio. Viene da lontano e – nelle intenzioni dello stesso Dumas e del prefetto di Parigi Pierre Carlier, mentore il primo, promotore il secondo della famigerata «lotteria dei lingotti d’oro» – ha da andar lontano.
Tanto lontano che, per quanto attiene il passato, Dumas ci avverte che «non sappiamo nemmeno se arriva prima o dopo il Diluvio, anche se una venerabile tradizione afferma che i figli di Noè, prima di lasciare l’arca, abbiano giocato a morra, una specie di lotteria ancora in uso tra i lazzaroni di Napoli».
Per ciò che attiene al futuro, anche se persa tra i fumi di una bassa mitologia, la genealogia dumasiana proietta una luce involontaria su ciò che, a tratti, potrebbe anche apparire come una verità strutturale dell’azzardo e delle esistenze che ne rimangono impigliate, le vite d’azzardo di cui nelle pagine dell’iniziativa che oggi si conclude abbiamo tentato di parlare, facendo affiorare rivoli di quel fiume carsico che, nella letteratura, grande o piccola che sia, di quelle vite non ha avuto timore di trattare.
Orizzonti californiani
Luce, dicevamo. In quel testo di Dumas figlio letterariamente senza valore, ma di una valenza storica a suo modo esemplare la luce viene dall’orizzonte d’attracco, non di partenza ed è sintomatico che a indicarlo sia fin da subito l’armatore Jules Langlois, mecenate dello scrittore ma, soprattutto, deus ex machina della Lotteria dei lingotti d’oro che si prenderà Parigi, la Francia e contagerà l’intera Europa arrivando, con la sua coda lunga, a lambire le nostre esistenze, qui e ora e come non mai esposte involontariamente a un azzardo che si è davvero fatto sistema.
L’orizzonte, precisa Langlois, è la California. La California della gold rush quella nella quale risplende come un deserto – così Jean Baudrillard, col quale abbiamo iniziato la nostra serie – il mito totale dei nostri tempi.
Ed è a sua volta sintomatico il fatto che la nascita dello Stato della California, il cosiddetto Golden State, parte degli Stati Uniti dal 1850, vada di pari passo con la storia dell’azzardo moderno, in particolare con l’arrivo delle prime macchine da gioco con pagamento automatico, le slot-machine inventate e brevettate proprio in quegli anni da un immigrato bavarese, Charles August Fey.
Per Langlois si trattava di speculare su un miraggio, quello della corsa all’oro californiano iniziata nel 1848, finanziando la buona causa di turno con un lotteria. Per farlo, Langlois aveva proposto di costituire e battezzare con i crismi dell’ufficialità una «Società per l’emigrazione in California», da cui il «filantropo» avrebbe ovviamente tratto non pochi profitti. Il governo di Luigi Bonaparte – che il 3 agosto 1850 creò la Société des lingots d’or che doveva occuparsi della lotteria – non aspettava altro e capì che la commistione tra lotteria, emigrazione, ro e speranza offriva da un lato la scusa giusta per liberare il terreno dagli indesiderati senza destare troppe proteste; dall’altra la possibilità di mascherare il debito accumulato attraverso una proliferazione di miraggi e una mobilitazione permanente verso il nulla.
Nella tattica del piccolo Napoleone, che il 2 dicembre del 1851 avrebbe chiuso il cerchio col proprio colpo di Stato, la «buona causa» di regolamentare, organizzare e persino finanziare tramite lotteria l’emigrazione verso il nuovo Eldorado oltreoceano permetteva di mascherare le proprie intenzioni e, al contempo, di sbarazzarsi dei potenziali, nuovi «soldats des barricades» che una volta passati all’atto del coup d’État avrebbero potuto contrastarlo tra i vicoli e per le strade di una Parigi che si popolava sempre più e alla quale Haussmann avrebbe presto cominciato a metter mano.
Un lingotto d’oro del valore di centinaia di migliaia di franchi venne esposto in Montmartre, più di tremila «cercatori d’oro» furono mandati in California con una minima parte dei proventi della lotteria (gli altri finirono in qualche fondo nero), ma, come si scoprì ben presto, quella lotteria era non solo illegale nel suo montepremi – avendo derogato alle disposizioni della legge del 16 maggio del 1816 sulle lotterie benefiche, dove si stabiliva che in premio potessero essere dati unicamente prodotti dell’industria o dell’artigianato nazionale – ma, cosa ancora più sconcertante, che quel lingotto da quattrocentomila franchi non aveva alcuna possibilità di essere vinto.
La lotteria era stata truccata, forse su ordine dello stesso Bonaparte – come lascerà maliziosamente intendere Victor Hugo. «Ciò che agli occhi del Ministro appare come lotteria di beneficenza, agli occhi di coloro che l’hanno messa in piedi questa lotteria appare come una speculazione commerciale», il 3 ottobre 1851, sulle pagine de «La République». Alcuni deputati avanzarono anche l’ipotesi che il promotore Langlois, beneficiario primo ma forse non ultimo della lotteria, fosse nient’altro che un prestanome, dietro il quale si nascondevano boiardi di Stato molto vicini a Luigi Bonaparte, se non Bonaparte stesso.
Poetica della scommessa
In questo clima apparve a Parigi il libretto di Dumas, sedici pagine in tutto. Ma l’Histoire des loteries altro non era che la riprese, in plaquette, di un articolo scritto su commissione guarda caso della «Société des lingots d’or» promotrice della lotteria. «I moralisti – puntualizza Dumas, qui in veste di ufficio stampa di una società per lo sviluppo dell’azzardo di massa – hanno scritto molte cose sui pericoli della lotteria, ma si sono dimenticati di dire che le risorse più fruttuose e stabili per gli Stati derivano proprio da qui». Tutto è una lotteria ribadisce Dumas – in uno slancio «poetico» a cui però nulla hanno da invidiare gli attualissimi spot di qualche nostrano gioca&vinci – «la vita, perpetua lotteria a profitto della morte. L’amore, lotteria del cuore. L’ambizione, lotteria della testa. L’avvenire, lotteria di tutto». E poi? Poi ecco gli operai e i poveracci, i diseredati e gli straccioni tirati in mezzo al guado: «chi siamo noi per impedire i loro sogni? Comprate i vostri biglietti – chiosa lo scrittore-piazzista – compratene tanti, come sto facendo io. Chissà che non capiti proprio a voi di poter portare a casa quel mostruoso lingotto che hanno esposto per la strada». E in ogni caso – conclude – si aiuterà il bisognoso.
Qui, però, anche se Dumas non ha la statura intellettuale di un de Maistre o di un Talleyrand (autore nel 1789, non a caso, di un trattatello sulle lotterie), l’intima, paternalistica, alleanza tra «catastrofe del presente» e «promessa di avvenire» tentata tramite la lotteria dei lingotti d’oro da Luigi Bonaparte fa un salto di qualità e presenta il conto – ancora non pienamente saldato, perché non pienamente compreso – in termini di una vera e propria religione del debito.
La strategia sfugge di mano e rivela come nessuno, nemmeno Luigi Bonaparte, colui che ha trasformato la tragedia in farsa nella riedizione del 18 brumaio, possa farci più nulla. Perché l’azzardo, per le vite che impatta, diventa occasione di non cambiare nulla, di coltivare una speranza senza chance. Questa speranza senza chance che tocca dapprima il minuto popolo ma presto travolgerà anche le istituzioni che l’hanno promossa. Forse così si spiega l’improvvisa irruzione di un riferimento alla lotteria dei lingotti d’oro fatto da Karl Marx nel suo magistrale testo di critica storica, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, pubblicato in opuscolo negli Stati Uniti nel maggio del 1852.
Karl Marx chiamerà questo popolino con un neologismo coniato proprio per l’occasione e sotto certi aspetti brutale nella sua lucidità: «Lumpenproletariat», letteralmente «proletariato degli stracci». Senza darne definizione, Marx lo distingue dalla classe e stilando un elenco, una lista che in qualche modo configura quella che chiamerà una massa informe e fluttuante, aufgelöste Masse.
L’espiazione della colpa
In questa lista di vite nude ricoperte solo da pochi stracci – e forse il vero azzardo è tutto qui, in un denudamento che è pura e casuale esposizione alla sorte – Marx inserisce esplicitamente anche quei lazzaroni cui già si era riferito Dumas come gente dedita al gioco, allo sperpero, alle vite dedite a un azzardo che si sta, però, sempre più istituzionalizzando nella forma della lotteria di Stato e porta con sé il corrispettivo di questa istituzionalizzazione: un indebitamente senza fine. Proletario degli stracci si appresta così a diventare il giocatore, il senza classe, il senza lavoro non perché privo di impiego, ma perché completamente avvinto in un paradigma di gioco totale che non ammette antagonismi e contraddice in nuce l’idea stessa di lavoro. Con queste vite d’azzardo siamo agli albori – settant’anni dopo Walter Benjamin l’avrebbe capito a fondo – di quel capitalismo come religione che è un infinita promessa di redenzione ma non redime, che è un’infinita promessa di libertà ma non libera, che è una promessa di espiazione che amplifica e dilata gli orizzonti della colpa.
Che tutto questo, nel 1851, avvenga sulla scena dove tracollano grandi speranze di rivoluzione, assumendo la doppia forma di quel lingotto d’oro esposto in una pubblica via e del biglietto di una lotteria di Stato inevitabilmente truccata fa parte di quell’infinita ironia della storia, in gioco che tutti siamo in qualche modo pronti a giocare solo a patto di non dover vincere mai. La seduzione innesta una spirale dove il gioco diventa, innanzi tutto, garanzia della propria sconfitta, garanzia di una perdita. Finché l’azzardo coincide individualmente con l’ambizione e il sogno dell’arricchimento e del profitto – Max Weber lo aveva ben capito – ma in fin dei conti garantisce una perdita che significa sostanzialmente assenza di antagonismo, il suo gioco forse coincide, ma nemmeno contraddice lo spirito del capitalismo. Forse le nostre vite d’azzardo ci hanno mostrato pur nella loro non eccezionalità di disperati, l’eccezionalità di qualcosa – ma cosa? – che hanno conquistato in pura perdita. Qualcosa che forse – e qui converrebbe interrogarsi a fondo, dentro e fuori la letteratura – si avvicina a ciò che potremmo chiamare davvero una diserzione.
Con oggi si conclude la serie estiva «Vite d’azzardo». Gli articoli, i racconti pubblicati sono stati: Jean Braudillard il 18 agosto («Ludiche passioni senza desiderio»); Mircea Cartarescu il 19 agosto («L’uomo beffato dall’ultimo colpo»); Bob Serling il 20 agosto («Overdose da slot-machine»); Matilde Serao il 21 agosto («La smorfia che avvolge l’esistenza»), Luigi Pirandello il 22 agosto («Il vile spleen dell’esistenza»; Stefan Zweig il 25 agosto («Scacco Matto alla fantasia»; Marcel Schwob il 26 agosto (L’adrenalina da rosso di cuori»); Jean-Eugene Robert Houdin il 26 agosto («I principii dello scroccone greco»; Luke Rhineart il 27 agosto («La libertà totale del caso»); Massimo Bontempelli il 28 agosto («Un rilancio in vista del poker»).
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