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Il governo trasforma il Superbonus in Supermalus

bonus ediliziCantieri – Ansa

Bilancio Con la riduzione delle tasse lo Stato premia chi può pagare subito. La differenza la fanno i soldi. Chi non ne ha, è tagliato fuori. E tanti saluti all’uguaglianza

Pubblicato più di un anno faEdizione del 3 marzo 2023

Nella nuova versione, tutte le distorsioni e le iniquità del Superbonus ne risultano accentuate. Il decreto governativo esclude dall’agevolazione la vasta platea degli “incapienti “, il 90 per cento di lavoratori dipendenti e fasce non marginali di ceto medio. D’ora in poi può accedere al Superbonus solo chi porta le spese in detrazione. Senonché, per detrarre dall’Irpef una spesa di 50 mila euro (in quattro anni), un lavoratore dipendente deve avere un reddito di almeno 43 mila euro, e se la spesa sale a 100 mila euro serve un reddito di 69 mila euro (Leonzio Rizzo, la voce.info).

Lo Stato premia con la riduzione delle tasse chi può pagare subito. Ancora una volta la differenza la fanno i soldi. Chi non ne ha, è tagliato fuori. Con tanti saluti al principio di uguaglianza.

La questione basilare del rapporto tra transizione ecologica e giustizia sociale rimane irrisolta. Banca d’Italia ci fa sapere che il 50% degli interventi attuati si sarebbero fatti lo stesso, a prescindere dal Superbonus. Un modo elegante per dire che i proprietari avrebbero pagato di tasca propria senza problemi. Invece in soli due anni sono stati spesi 70 miliardi per la ristrutturazione del 2% del patrimonio residenziale complessivo, 500 mila edifici tra condomini, prime e seconde case, ville; perfino un castello del Piemonte compare nell’elenco degli incentivi, con un milione di euro (fonte Enea).

Una spesa scriteriata, un regalo non dovuto a ricchi signori appartenenti a classi di reddito medio-alto, che vedono così aumentare il valore dei loro immobili e diminuire le bollette di luce e gas. Che cosa raccontiamo alle famiglie che abitano nei condomini popolari e di periferia? E che cosa alle famiglie sfrattate o ai 5,6 milioni di poveri? L’unico risvolto positivo di questa operazione, è il leggero incremento dell’occupazione e del Pil.

È fuori discussione, naturalmente, la scelta politica che punta all’efficienza energetica e alla manutenzione del patrimonio esistente. La ristrutturazione degli edifici rimane una misura cardine della transizione ecologica. Richiede la riconversione e l’adeguamento del comparto delle costruzioni a questa missione, chiudendo la stagione del consumo selvaggio di suolo e di mega-progetti insostenibili.

La transizione ecologica, da questo punto di vista, può rappresentare una grande occasione, soprattutto per quella parte dell’industria edilizia rimasta arretrata, poco propensa all’innovazione, regno del sommerso e responsabile di migliaia di morti sul lavoro. Per prendere parte all’affare del Superbonus innumerevoli piccole imprese sono emerse dal nero e 15 mila si sono costituite ex novo con competenze spesso poco compatibili con la svolta green.

Molte imprese sono ora a rischio fallimento: si trovano nella scomoda posizione di essere ricche di “crediti fiscali” ma povere di liquidità. Pagano la superficialità e l’approssimazione con cui il governo Meloni sta affrontando l’argomento.
Senza infingimenti, aldilà dei rilievi tecnici e delle modalità di attuazione, possiamo affermare che il Superbonus è un provvedimento politicamente sbagliato e ingiusto.

Nonostante i buoni propositi del governo Conte 2, che l’ha ideato e voluto, gli obiettivi di sostenibilità ambientale sono del tutto sganciati dalla giustizia sociale. Funziona come una patrimoniale alla rovescia. Nell’immediato, per attenuare il carattere regressivo di questa misura e per correggerne le distorsioni più gravi, sarebbe opportuno proporre un tetto del 65% all’incentivo (anche al fine di mobilitare un po’ di risparmio privato) e prevedere, per gli incapienti, una “imposta negativa” (un contributo o un rimborso commisurato al livello di reddito).

Tuttavia, in una prospettiva riformatrice, i riflettori accesi sul Superbonus possono essere la leva per far saltare il banco del sistema delle “spese fiscali” (tax expenditures), di cui quelle per l’edilizia costituiscono la punta di diamante. Nel 2022 le spese fiscali sono costate all’erario qualcosa come 120 miliardi di minori entrate. Soldi scippati allo Stato sociale, sottratti a investimenti nei servizi pubblici, nei beni comuni, a partire dall’ambiente e dal territorio, e dirottati verso incentivi ai consumi privati.

Le spese fiscali riflettono l’idea (liberista) secondo cui va bene tutto quello che fa girare i soldi e stimola la “crescita”. Dietro gli incentivi c’è il mercato, c’è il lavoro delle lobby e una politica che si muove in una logica di scambio. Un sistema sofisticato e perverso che erode base imponibile e distrugge ogni forma di equità e progressività dei tributi.

La maggioranza di destra si muove, com’è nelle sue corde, per disarticolare e frammentare gli interessi, insegue le nuove gerarchie di reddito e di ricchezza. Usa il fisco contro lo Stato sociale, piegandolo alle regole del mercato e ai rischi della finanza creativa. Un progetto di cambiamento non può non ripartire da una battaglia che restituisca al sistema di prelievo il ruolo fondamentale di redistribuzione sociale e ne faccia, al contempo, uno strumento efficace per accelerare la transizione ecologica.

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