Il giorno che Resnais intervistò Fellini e Masina
Archivi Nel 1955 le Editions du Seuil avevano dedicato al film «La strada» un volume all'interno del quale un giovane (e non firmato) autore intervistava il regista italiano e sua moglie. Era Alain Resnais, allora sconosciuto, che avrebbe raccontato anni dopo dell'incontro. Estratto
Archivi Nel 1955 le Editions du Seuil avevano dedicato al film «La strada» un volume all'interno del quale un giovane (e non firmato) autore intervistava il regista italiano e sua moglie. Era Alain Resnais, allora sconosciuto, che avrebbe raccontato anni dopo dell'incontro. Estratto
Nell’estate del 1955, Alain Resnais intervistò Federico Fellini e Giulietta Masina per un libro che le Editions du Seuil avevano dedicato al film La strada (1954), curato fra gli altri da un suo grande amico, il regista e viaggiatore Chris Marker. L’intervista non era firmata e Resnais all’epoca era ancora uno sconosciuto (Notte e nebbia uscì l’anno dopo) quindi nessuno si accorse di chi fosse l’intervistatore. Ma la firma di Resnais è suggerita, in modo estrosamente anomalo, dal ricorrere in sequenza nelle prime pagine dell’intervista di una sua fotografia e dal fatto che sia definito «celtico» (Resnais infatti era nativo di Vannes, città bretone i cui abitanti discendevano da un popolo celtico). Molti anni dopo fu lo stesso autore di Hiroshima mon amour a ricordare l’incontro in un’intervista con Aldo Tassone: «Dopo aver visto La strada decisi di andare a rendere visita a Fellini a Roma. All’epoca ero un illustre sconosciuto, ma Fellini mi accolse con un calore straordinario, per un intero pomeriggio parlammo di fumetti. Fellini non riusciva a capacitarsi come un bretone come me potesse conoscere così bene l’illustratore Giove Poppi, che era stato un suo maestro».
L’intervista occupa quasi cinquanta pagine del libro. Questi sono alcuni brani tradotti dal francese.
«C’era una volta un giovane uomo dall’inclinazione spontaneamente pessimista, celtico, sognatore, maniaco, grande viaggiatore, che aveva letto Giraudoux e Arsène Lupin a dodici anni la cui passione dominante era il cinematografo. Questo giovane uomo andò a vedere La strada. Vide questo film tre volte in due giorni. Forse avrebbe continuato. Gli sembrava assai probabile che sarebbe ritornato a vedere La strada, così, en passant, per gioco o per tristezza, fino alla fine della propria vita, che potrebbe essere lunga. Dunque, il virus era in lui».
Spettatore attento, Resnais si accorse che alcune copie dell’edizione francese erano state tagliate di tredici minuti (94 minuti contro i 107 originari) e in particolare era stata eliminata la sequenza in cui Zampanò e Gelsomina si esibiscono durante una festa nuziale in una fattoria in campagna: «Il giovane uomo gridava allo scandalo». Resnais riuscì a farsi ricevere da Fellini che si era appena trasferito in un attico ai Parioli dove avrebbe abitato fino alla metà degli anni ’60: «Era il mese di agosto, ma riuscì a trovarlo. I Parioli è il quartiere moderno, elegante, di Roma. La casa di Fellini con i suoi oleandri, le sue lastre di legno e di vetro, lo intimidiva. Suonò. Anzi: scelse un campanello. Ce n’erano due. Uno era falso. La domestica lo fece accomodare in una scenografia da commedia parigina in tre atti.
È entrata Giulietta Masina. È lei e non Gelsomina. Poco truccata, gli occhi rotondi e mobili, i gesti incredibilmente rapidi. Il giovane uomo le ha parlato, in punta di piedi, del libro che leggete in questo momento. (…) Lei ha iniziato a parlare. Una dizione prodigiosamente netta con delle modulazioni ampie, improvvise, come singhiozzi e risatine interiori.
Poi è entrato un signore imponente, poco rasato, vestito di un completo a righe. «È Federico», ha detto Giulietta Masina. In effetti era entrato. Ma era anche già uscito».
Il primo giorno Fellini non si ferma a parlare con l’intervistatore perché impegnato nel montaggio del suo nuovo film, Il bidone, che verrà presentato alla Mostra del cinema di Venezia a settembre. Giulietta racconta le sue prime prove teatrali, quando ancora frequentava l’università, con altri giovani studenti come Anna Proclemer e Marcello Mastroianni.
«Prima del ruolo di Gelsomina, avevo interpretato dei piccoli ruoli al cinema. Li avevo accettati perché pensavo di trarne il massimo. Ho cercato di conferire del carattere a ogni ruolo che ho interpretato utilizzando degli accessori del tutto particolari: il cappello con una lunga piuma di Luci del varietà, gli stivali e l’ombrello dello Sceicco bianco. (…)
«In seguito ho interpretato il ruolo di Melinda in Luci del varietà, era il primo film che Fellini dirigeva, con Lattuada. Era un ruolo da caratterista. Imitavo Verdi, Garibaldi. Apparivo e sparivo dietro un tavolo, con abiti diversi ogni volta, barbe inverosimili. Questo ruolo alla Fregoli mi è piaciuto molto, è quello che ho preferito prima di Gelsomina. (…) La sceneggiatura del film mi è stata data soltanto il primo giorno delle riprese. Fellini temeva che io cominciassi a «lavorare» il personaggio prima dell’inizio delle riprese. Voleva assolutamente che io mantenessi tutta la mia spontaneità. Io avevo capito la sostanza del personaggio di Gelsomina ma in un senso più romantico e anche più tradizionale rispetto a Fellini. È stato lui ad avere diretto da cima a fondo la mia interpretazione.
Quando ho assistito alla prima proiezione de La strada, scoprire il personaggio di Gelsomina è stata una sorpresa per me. Non avevo affatto l’impressione di avere interpretato il ruolo in quel modo. È stato un po’ come se scoprissi me stessa in quanto attrice. Per esempio: nelle scene di disperazione, Fellini ha voluto che sul mio volto non scendesse nessuna lacrima ma che io avessi semplicemente un sorriso triste e gli occhi pieni di lacrime. Questo modo di interpretare il dolore è del tutto contrario alla tradizione e senza dubbio io non avrei avuto il coraggio di farlo da sola.
(…) E poi, i primi giorni di riprese, Fellini era obbligato a ricordarmi tutto il tempo di sorridere a bocca chiusa. In effetti, Gelsomina non poteva sorridere se non con la bocca chiusa, perché un sorriso aperto avrebbe corrisposto a qualcosa che non esiste in Gelsomina. Lei è chiusa, segreta; soltanto nei suoi occhi si può vedere un’espressione aperta. Questo modo di sorridere con la bocca chiusa, io l’avevo quando ero piccola. Fellini l’aveva notato in una fotografia».
Il giorno dopo, Fellini riceve Resnais «con un’espressione molto attenta. Quasi troppo».
«L’ufficio di Fellini è una stanza nuda, austera. Qualche libro, delle marionette fra i libri. Una ceramica di Gelsomina. Dopo qualche istante, Federico dice al giovane uomo: «Andiamo da Canova. Vedrà della gente interessante».
Ma «Dopo qualche ora, Fellini disse che non si poteva parlare in questo posto e diede appuntamento al giovane per l’indomani, davanti alla casa di Nino Rota. (…) Fellini arrivò in un’enorme automobile nera, pesante, molto insolita.
«Salga», disse al giovane uomo.
Rota non era in casa. Fellini guidava con quell’agilità che si attribuisce ai delfini dei Sargassi e la vettura scivolava senza rumore nella campagna romana. (…)
Il giovane uomo aveva l’impressione di poter porre a Fellini le domande più difficili, perché rispondeva sempre con naturalezza. Infatti Fellini racconta a Resnais uno dei più celebri episodi autobiografici di sua invenzione: la sua fuga da Rimini a dodici anni con un circo. Poi rievoca un altro celebre episodio inventato: il viaggio con Aldo Fabrizi per seguire la tourné di una rivista (tourné che fu smentita da Fabrizi), quindi alcuni episodi realmente accaduti (l’esperienza radiofonica, l’apertura del negozio di caricature The Funny Face Shop dopo la liberazione di Roma e la collaborazione con Rossellini).
Resnais gli chiede: «Leggendo la sceneggiatura originale de La strada, mi sono accorto che c’erano delle scene mancanti nel film. Le ha tagliate volontariamente o su richiesta del produttore?»
«Sì, sfortunatamente il film era troppo lungo. Abbiamo tagliato una lunga passeggiata della piccola suora che mostrava il convento a Gelsomina come se si trattasse di un palazzo, mentre era un edificio miserabile. Le spiegava che i primi tempi lei non si trovava bene nel convento, che voleva andarsene, ma una notte aveva sognato la Vergine che le aveva detto: Parti, se vuoi, ma dove andrai? Dato che quelle parole somigliavano molto a quelle che le aveva rivolto il Matto, Gelsomina comprese confusamente che era lo stesso messaggio. Stavolta le veniva comunicato tramite la piccola suora: lei doveva rimanere con Zampanò.
È stata tagliata un’altra scena che amavo molto. Si svolgeva dopo le nozze, nella stalla, con un piccolo agnello neonato. Mentre Zampanò è con l’altra donna, Gelsomina va nella stalla, vi scopre il piccolo agnello che trema; domanda allora ad un ragazzo che si trova là perché tremi l’agnellino; dato che il ragazzo la crede folle, per prendersi gioco di lei, le risponde che è perché l’agnellino la notte vede degli spiriti. Dato che anche Gelsomina la notte ha paura, prova simpatia per la piccola bestia e le parla a lungo.
C’è anche un’altra scena tagliata, prima di quella che si svolgeva nella stalla. Zampanò e Gelsomina, si trovavano in un bar prima di fare il loro numero di circo. Gelsomina si era addormentata e, per svegliarla, Zampanò le metteva la testa sotto un getto d’acqua molto fredda e le offriva una tazza di caffé. In quel momento, si guardavano per la prima volta negli occhi e Gelsomina era un po’ spaventata. Uscendo dal caffé, Zampanò si accorgeva che non c’era più benzina nella motocicletta e obbligava Gelsomina a spingere la roulotte fino ad una stazione di servizio». La conversazione fra Resnais e Fellini si soffermava su altri aspetti della Strada e, nelle ultime battute, il regista riminese afferma: «Realizzare un film significa trovare un punto di equilibrio fra l’idea e le suggestioni della realtà. Nella Strada si trattava anche di fondere un’idea morale e delle ispirazioni estetiche: i miei terrori di bambino, i miei complessi, e certe esperienze personali di ordine morale. Il tono e il ’colore’ del film sono venuti dopo aver conosciuto il clima: i contadini e i piccoli borghi di campagna; il fatto di essere andato a perlustrare per due anni tutta l’Italia. Perché non si può fare a meno della realtà».
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