Il futuro gramo delle ex aziende di Stato
Privatizzazioni Telecom, Ilva e Finmeccanica sono a un bivio. Il «sistema Italia» non riesce a garantirle. Necessaria joint venture pubblico-stranieri?
Privatizzazioni Telecom, Ilva e Finmeccanica sono a un bivio. Il «sistema Italia» non riesce a garantirle. Necessaria joint venture pubblico-stranieri?
Quello della privatizzazione massiccia del nostro sistema industriale è stato uno dei numerosi importanti errori compiuti a suo tempo dai governi di centrosinistra. Le conseguenze di tale decisione si fanno ancora oggi per molti aspetti sentire negativamente sull’andamento della nostra economia. Tra i pilastri fondamentali del gruppo Iri si potevano indubbiamente collocare in prima fila tre grandi gruppi, Telecom Italia, Finmeccanica, Italsider. Per fortuna, nonostante tutta la buona volontà messa dai nostri successivi governanti di sinistra e di destra, tali strutture sono ancora oggi in vita, ma peraltro esse, chi più chi meno, respirano comunque tutte con difficoltà.
Delle tre imprese citate, Telecom Italia è forse quella che ha avuto la vita più movimentata dopo la privatizzazione. All’inizio è stata presa in mano da Colaninno & soci, che hanno scaricato sull’azienda il primo pesante carico di debiti, poi acquisita da Tronchetti Provera – allora considerato il grande e geniale erede di Gianni Agnelli alla guida del nostro capitalismo-, che, con l’aiuto di Mediobanca, ha portato un nuovo carico di debiti all’azienda. Anche dopo il ritiro del capo della Pirelli il gruppo non ha più trovato un assetto proprietario adeguato; esso si trova oggi con oltre 26 miliardi di debiti, con una presenza di mercato rilevante solo in Italia e in Brasile, dopo che è stato anche costretto a cedere le sue partecipazioni in numerosi paesi dell’America Latina e dopo che la mancanza di risorse ha bloccato la sua espansione. La società, che pure al momento della privatizzazione si trovava all’avanguardia nelle tecnologie di telecomunicazione, ha oggi una presenza marginale nel suo settore di riferimento, mentre è da tempo alla ricerca di un approdo proprietario, strategico, finanziario, che le permetta di assicurarsi un dignitoso sviluppo.
Telecom Italia si trova a un punto cruciale della sua storia. È in atto un’ennesima rivoluzione tecnologica e di mercato, con la spinta alla convergenza delle tecnologie del fisso, del mobile, della banda larga, della televisione. Tale mutamento sta cambiando gli assetti del settore a livello mondiale e si prevede, tra l’altro, che il numero degli operatori, visti i grandi investimenti e le economie di scala necessarie per stare sulla piazza, si riduca fortemente.
Il nostro paese si trova in ritardo nella diffusione della banda larga e il governo cerca di spingere confusamente verso il suo sviluppo e verso un parallelo avvicinamento su questo fronte tra gli operatori, con l’intervento anche della Cassa Depositi e Prestiti.
Ma intanto Telecom Italia sta cercando una sua strada autonoma. L’azienda ha annunciato di recente un piano di investimenti da 14,5 miliardi di euro per il periodo 2015-2017, di cui 10,0 miliardi dovrebbero essere collocati in Italia e, di questi, 3 miliardi concentrati sulla banda larga. A livello societario c’è il possibile arrivo in forze dei capitali francesi. Ha cominciato qualche mese fa Orange, ex France Telecom, suggerendo che una fusione tra la stessa Orange e Telecom Italia sarebbe stata opportuna. In seguito ad una serie di operazioni complesse, da parte sua Vivendi ha oggi in portafoglio l’8,3% dei diritti di voto del nostro gruppo. Il suo capo, Vincent Bollorè, tra l’altro socio di Mediobanca, con buone relazioni con Berlusconi, potrebbe volere estendere la sua quota attuale acquisendo ad esempio quelle in vendita di Mediobanca e Generali. La Cassa Depositi e Prestiti, dal canto suo, potrebbe intanto cercare comunque di entrare nel gioco.
Il limone spremuto dell’Ilva
L’Ilva, che gestiva tra l’altro l’impianto siderurgico più grande d’Europa, è stata venduta a suo tempo ai Riva per pochi spiccioli. La famiglia ha saputo spremerla fino in fondo, ricavandone fortissimi utili, una parte rilevante dei quali la magistratura sta cercando ancora di rintracciare in giro per il mondo nei vari paradisi fiscali.
Tali lauti guadagni sono stati, come è noto, ottenuti tra l’altro evitando di fare gli investimenti necessari ad abbattere il pesante inquinamento dell’impianto e questo con la consueta complicità di politici e media. E’ dovuta a suo tempo intervenire la magistratura perché molte delle magagne tenute sotto il tappeto venissero a galla.
I conti della società a livello di vendite e di risultati economici e finanziari sono stati colpiti sia da tale intervento che dall’arrivo della crisi del 2008, oltre che dai nuovi dati dell’evoluzione internazionale del settore.
In effetti, di fronte ad una forte turbolenza dei prezzi di vendita dei prodotti e dei prezzi di acquisto delle materie prime, con il manifestarsi di forti capacità produttive inutilizzate, con una parte crescente del mercato conquistato dai produttori dei paesi emergenti, Cina in testa, tutti eventi tra di loro collegati, si sono sviluppati forti processi di ristrutturazione del settore, con fusioni ed acquisizioni, integrazioni verticali, chiusura di impianti, taglio dei costi.
Oggi la società si trova di fronte a molteplici difficoltà. Intanto sono passati diversi anni dall’intervento della magistratura, ma il processo di risanamento dell’impianto procede in maniera molto lenta, grazie anche alle complicità governative. Peraltro la società avrebbe anche bisogno di trovare o ritrovare i mercati necessari alla sua sopravvivenza di lungo termine, nonché di reperire le risorse finanziarie necessarie a chiudere il cerchio. Il governo sembra essersi rassegnato ad una qualche forma di nazionalizzazione temporanea strisciante dell’impianto,con la speranza di cederlo poi a ristrutturazione completata a nostre spese. Ma tale soluzione appare a nostro parere largamente insoddisfacente.
Le ferite di Finmeccanica
Dalla creazione della Finmeccanica sono passati diversi decenni prima che si arrivasse ad individuare un assetto strategico stabile, che aveva portato il gruppo a specializzarsi nella produzione di armamenti e in apparati civili legati tecnologicamente a quelli delle armi. Per un po’ lo schema è sembrato funzionare, portando ad un forte aumento delle dimensioni, grazie anche ad alcune acquisizioni in Italia e soprattutto all’estero nonché a un miglioramento nei conti, ma poi è arrivata l’ora della verità. Questo, da una parte, in relazione allo scoppio della crisi, tra l’altro con la relativa riduzione dei budget della difesa nella gran parte dei paesi occidentali, dall’altra con gli scandali di cui si è riempita negli anni scorsi la cronaca giudiziaria e diplomatica, in Italia e all’estero. Intanto il pacchetto di controllo della società è sempre nelle mani del ministero dell’economia.
Il nuovo gruppo dirigente, insediato nel 2014 dopo gli scandali sembra riuscire in qualche modo a risanare gran parte delle vecchie ferite, a fare ordine nel precedente caos organizzativo a riportare i conti in territorio più tranquillo.
Intanto qualche mese fa esso ha messo a punto un piano di sviluppo per il periodo 2015-2019 che, mentre ripristina un po’ d’ordine in casa, evita invece accuratamente di affrontare le questioni strategiche cruciali per il destino dell’azienda e senza la cui soluzione i destini futuri del gruppo appaiono molto problematici.
Tra tali questioni sino ad oggi irrisolte sta intanto, come negli altri due casi, la grande carenza di mezzi propri; c’è poi da considerare che il mercato militare in occidente è nelle mani delle imprese statunitensi ed in molto minore misura di quelle francesi ed inglesi -dati gli elevati stanziamenti per la difesa di tali governi e il loro forte peso diplomatico nel mondo-, mentre quello civile vede manifestarsi una forte concorrenza e mentre diventano sempre più importanti i mercati e i produttori dei paesi emergenti, area in cui la Finmeccanica trova difficoltà ad entrare. Come al solito poi, anche in presenza della necessità di grandi stanziamenti in ricerca e sviluppo, il governo appare sostanzialmente latitante. Sembrerebbe, tra l’altro, necessaria un’alleanza con qualche grande produttore estero e comunque una scelta più netta a favore del business civile.
Il sistema Italia non appare in grado da solo di mantenere adeguatamente in vita le tre strutture citate, che rischiano dunque una deriva progressiva. Esse non hanno i mezzi finanziari e un controllo dei mercati adeguato rispetto ai nuovi dati del quadro internazionale, né all’orizzonte appare alcun soggetto privato nazionale in grado di venire in soccorso.
L’unica via che sembra fattibile per assicurare un futuro di sviluppo adeguato alle tre imprese, che salvaguardi anche alcuni interessi nazionali di base, appare quella di una collaborazione al loro capitale tra una struttura pubblica, presumibilmente la Cassa Depositi e Prestiti, e l’intervento parallelo di società estere che siano in grado di apportare mercati, risorse finanziarie, sinergie industriali. La sola alternativa a tale ipotesi appare la progressiva e intera acquisizione delle tre strutture da parte di gruppi internazionali. Naturalmente per portare avanti un progetto adeguato ci vorrebbe da una parte una chiara volontà e visione politica, dall’altra la trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti da un club massonico a una struttura democratica, sotto il controllo del Parlamento.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento